Partiti e politici

Città europea o Italia localissima? Domenica Trieste vota per questo

3 Giugno 2016

Le imminenti elezioni comunali di Trieste assumono a parere di chi scrive una connotazione che supera la mera scelta amministrativa e rappresentano un possibile esperimento per future condizioni della politica, ruolo che per altro Trieste ha già assunto altre volte nella sua storia.

Veniamo intanto ai fatti, ci sono più di dieci candidati sindaci supportati da un numero di liste che hanno permesso la battuta “ci sono più candidati che elettori”, la gara sostanzialmente a detta di tutti è a 3, il candidato del centrosinistra e sindaco uscente Roberto Cosolini, quello del centrodestra Roberto Dipiazza, già due volte sindaco prima di Cosolini e il candidato dei 5stelle Paolo Menis, anch’esso già in lizza alle scorse elezioni 5 anni fa.

A lato ci sono alcune candidature su cui è bene soffermarsi per capire la complessità del quadro. La prima è quella di Alessia Rosolen con una lista di centrodestra che unisce una pattuglia che potremmo vedere vicina all’esperienza Alfano a un centrodestra che si sente lontano oramai dai resti del berlusconismo e l’esperienza civica di “un’altra Trieste” che le scorse elezioni raccolse più del 10% condizionando molto il crollo del centrodestra e il mito di Trieste città solidamente destrorsa (esperienza che poi, con numeri più limitati, ha comunque condizionato parecchio la strettissima vittoria di Debora Serracchiani alle successive regionali).

Alessia Rosolen, pur essendo una candidata molto seria e tosta, non pare riuscire a raccogliere l’eredità di ruolo di ago della bilancia, cosa che fa riflettere essendo l’unica candidata donna in una città in cui l’emancipazione femminile ha una storia lunghissima ed è un dato acquisito cinquant’anni prima di ogni altro luogo italico.

Ci sono poi varie liste indipendentiste che non riconoscono l’italianità di Trieste (e sia mai neppure la Padania che qui non ha mai attecchito al punto che la Lega ha da sempre la bandiera dell’Austria imperiale nel logo), tra loro in lotta feroce, divise anche se partecipare alle elezioni o meno visto che non riconoscono chi le bandisce. Anche il loro ruolo, che era cresciuto molto negli anni passati con manifestazioni dai numeri molto significativi per una città molto tranquilla e posata, non appare in grado alla fine di condizionare l’esito finale, esattamente come altre candidature di scopo (no questo, no quello) o di bandiera (molte delle quali palesemente “contro” nate solo per sottrarre voti ai propri ex alleati e sodali, nella miglior tradizione più del tafazismo che dell’atmosfera nihilista mitteleuropea).

In questo contesto si trovano a confrontarsi i tre principali contenders, con un bacino di voti naturale tra il 20 e il 30% ciascuno. Tre contendenti, dunque, per due città che si confrontano da sempre: cortocircuito che crea un sistema di doppi sotto-insiemi decisamente interessante.

Vi è un altro dato che il lettore non del luogo deve sapere, Trieste, che oggi ha poco più di 200 mila abitanti, ha un elettorato attivo che fisiologicamente gira tra i 150 e i 160 mila elettori e al contempo 80 mila pensionati e almeno altri 50 mila lavoratori impegnati in attività che possiamo dire hanno scarsissima responsività rispetto alle scelte della politica (impiegati, ma anche dirigenti di uffici siano essi statali, regionali, di enti vari o di grandi corporate come Generali, Allianz, luoghi che a prescindere dalla loro produttività, pagano poco alla fine le scelte della politica).

Si confrontano quindi una città che produce e che ha bisogno di scelte e una in cui o non si produce affatto o comunque si può derogare dal sentirsi responsabili da quello che la politica fa rispetto alla propria qualità della vita (valore altissimo in una città in cui si vive a lungo, molto bene e con un coefficiente di gaudiosità decisamente molto alto), uno scontro titanico che ci pare poter essere davvero un luogo di indagine interessante per il futuro su scala nazionale. Un futuro in cui il numero degli elettori appare destinato a calare notevolmente (qui il 50% non è del tutto scontato in una città anziana e molto asburgica nell’affrontare seriamente i propri doveri), dove l’interesse attivo appare destinato ad una minoranza e in cui si aprono a ventaglio proposte molto puntuali su un tema specifico (ecologia, diritti, per trovare esempi chiari a tutti) e non su una visione globale di sviluppo.

Un modello in cui la politica che si riduce (almeno per usare le aspirazioni alte e assolute del Novecento come paragone) ad essere un luogo di lobbismi specifici e non più luogo di una sintesi. Anzi, in cui fare sintesi produce attriti e dà occasioni agli avversari di scherno o attacco e per cui va strategicamente evitata dando fiato ad una logica dell’indistinto in cui agiscono piccoli gruppi molto motivati su cose specifiche e poi, se mai sintesi fosse necessaria, la si lasci ad una leadership altissima, quasi irraggiungibile fatta per piacere tutti. Un qualcosa che cambi completamente le logiche e la natura stessa della politica in un paese che se l’è in qualche modo inventata e che di passioni guelfe e ghibelline ha sempre non solo vissuto, ma dalle quali ha tratto la sua forza.

Il secondo confronto è un tema storico di Trieste, l’eterno duello tra la città emporiale e commerciale e quella murata del castello a cui afferivano le storiche tredici casade e ancora oggi, in termini diversi, fanno riferimento un blocco di legami e amicizie della “Trieste bene” per cui tutto appare abbastanza immutabile. Tutte le grandi trasformazioni urbane ed economiche sono state costruite su questo attrito radicato e radicale e tutto è sempre avvenuto contro la triestinità più locale (storicamente contro a tutto, dalle bonifiche teresiane alla costruzione del porto nuovo – che oggi si chiama vecchio per semplificare le cose…), ma al contempo, mentre gli stranieri e i rappresentanti della città emporiale (greci, ebrei, ma chi più ne ha più ne metta) facevano lo sviluppo, l’altra parte costruiva identità a cui poi gli stessi, una volta arricchitisi, dovevano comprare in un giro perverso ma virtuoso. Oggi la città murata appare del tutto logora, con poche idee e con una classe dirigente ridotta ai minimi termini, praticamente sconfitta dalla sua stessa inerzia e da un conservatorismo strutturale che non produce più identità (se non qualche canzone popolare come il siparietto del settantenne Umberto Lupi, che canta adagi popolari in dialetto ad una presentazione elettorale del candidato del centrodestra) e sta consumando quello che resta dei soldi che la città emporiale non riesce più a rimpolpare.

Ne esce una campagna elettorale stranissima in cui il candidato Dipiazza, sapendo di non prendere voti in alcuni ambienti, punta direttamente “solo” (non se la prendano i suoi sostenitori) alla nostalgia di un presunto decoro urbano che c’era “ai suoi tempi”. Tempi finiti con un piano regolatore non approvato e in una zuffa totale che ha fatto scoppiare l’alleanza, al punto che Dipiazza oggi è candidato di Lega, Fratelli d’Italia, in città tricolorissimi e italianissimi per lunga tradizione e Forza Italia – PDL che per altro in Comune oggi hanno due gruppi separati. Il tutto mentre alle ultime europee lo stesso Dipiazza era candidato da chi oggi sostiene la Rosolen contro questo stesso centrodesta e in consiglio regionale, dove lui stesso dice di annoiarsi, ma in cui è eletto, sta nel gruppo di autonomia responsabile contro Forza Italia/PDL in un mix del tutto incomprensibile se si esce da quella predisposizione all’assurdo tipico di queste zone.

Dipiazza oltre a non indicare, volutamente ci dicono suoi stessi sostenitori, temi del futuro su cui regna il disaccordo più totale della sua coalizione, ha deciso di non partecipare quasi mai ai dibattiti e di fare il convitato di pietra, una scelta che appare molto interessante per uno che è stato già per 10 anni sindaco “di tutti” e che viene da uno schieramento che per 20 anni ha voluto essere quello “di tutti gli italiani” o dei “moderati” come amava dire il suo leader. Puro lobbismo di parte, pura identità in una chiave triestina dove questa identità è da due o tre secoli il principale arrocco da cui essere “contro” lo sviluppo e il mercantilismo.

Il secondo protagonista è il candidato pentastellato della prima ora Menis, che parla ovviamente ai suoi e fa politica di settore, come da sempre fanno i 5 stelle (in questo modernissimi per la nostra teoria qui proposta), capendo che per mirare ad essere il 51% senza allearsi con nessuno si può solo passare per un abbassamento enorme del quorum, ma che intercetta così bene una parte sia di elettorato economicamente non produttivo (comprendente, come dicevamo, anche un settore che lavora, anche con serietà ovviamente, ma in cui la ricaduta delle politica è molto relativa) che un pezzo di una città con valori progressisti che mal sopporta i compromessi (necessari, viene da scrivere a chi qui sta pigiando i tasti) a tenere assieme più temi e vuole sentirsi invece non solo partecipe, ma protagonista di qualcosa (la base della società dello spettacolo e della post modernità dove 15 minuti di gloria valgono più di una crescita non mediatica).

Abbiamo lasciato per ultimo il sindaco uscente che appare l’unico che si carica sulle sue poderose spalle (ex ala pivot di buon livello, vicino ai 2 metri) una idea complessiva fortemente orientata ai valori del progresso. Tifa emporio e mercato, non a caso parla molto di infrasttutture, portualità, impresa e non a caso è il primo a cui riesce di smuovere il molosso del Portovecchio, una area gigantesca sul mare che è l’opportunità più grande che la città ha da giocarsi, sopratutto ora che Cosolini è riuscito a tessere una tela complessissima con Governo e Regione e la cosa sta iniziando ad avere vera rilevanza nazionale (e, ovviamente mandando in fibrillazione i cavalieri del localismo). Cosolini ha l’appoggio evidente di quasi tutti quelli che fanno impresa e che muovono i soldi della città, ma non riesce a trovare l’appoggio né della “città murata” (ovviamente verrebbe da dire, eh sta con gli altri che vogliono fare business che finiranno per prendersi il poco che resta di una aristocrazia spesso autonominata ed esausta) né dei particulari e delle varie lobbies monotematiche che non gli riescono a perdonare di essere un soggetto di un’altra epoca che guarda ancora al generale, che ambisce ad una sintesi. E’ uomo di economia in una città in cui 120 mila elettori su 150 mila hanno un livello di benessere e-o di produttività che gli rende del tutto indifferente che l’economia giri (e per alcuni di essi è palese che non giri visto che vivono di una rendita che il mercato finirebbe per minimizzare), per cui molti possono pensare di farne a meno.

L’effetto di una sua non rielezione sarebbe abbastanza drammatico, non tanto guardando se abbia governato bene o male – i dati sono decisamente lusinghieri, in alcuni settori più che ottimi, ma il livello di lamento congenito della popolazione locale però è altissimo, come avviene spessissimo in ambienti in cui c’è il tempo di lamentarsi e poter controllare se le immondizie sono state ritirate puntualmente durante le mattinate che altrove sarebbero trascorse in un qualche ufficio – ma perché assieme a lui verrebbe sconfitta sia l’idea di una politica che riesca ancora a fare sintesi di sistemi complessi e, contemporaneamente, la possibilità che una città come Trieste ritrovi spazi per una sua anima mercantile e aperta, chiavi necessarie per stare nel mondo di oggi da protagonista.

Siccome per ragioni geografiche, politiche e storiche Trieste è un laboratorio di prima sensibilità per le vicende europee, crediamo che i risultati di queste stanchissime e spompate elezioni imminenti, siano lo spartiacque tra il poter tornare ad essere la più europea delle città italiane o una delle più remote e irraggiungibili mete di una Italia localissima. Mica poco per un voto solo.

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