Torino

URBS E CIVITAS: COME SAREBBE BELLO RIPARTIRE DALLA #POLIS

29 Ottobre 2014

 

Tempo fa un caro amico  – Andrea Sarubbi, ex bravissimo parlamentare PD e giornalista – mi regalò una citazione del cardinal Martini che non conoscevo.

Si  parla di città e conferma che occuparsi di cittadinanze, quartieri e trasformazioni urbane, territorio significa tentare di tenere insieme il brulichio disordinato e dinamico della civitas con la complessità dell’urbs, della  forma, delle funzioni, degli interessi e del futuro della città.

La città è il nucleo della complessità da sempre, metafora straordinaria di politica e politiche, buoni e cattivi governi. L’allegoria del Buono e Cattivo Governo, Ambrogio Lorenzetti  la dipinse mirabilmente alla fine del XIV secolo riferendosi a quel gioiello di armonia urbana che è Siena.

La Gerusalemme del Cardinal Martini disegna quello che ci vorrebbe e quello che non sempre c’è, nelle nostre città.

La meta del cammino umano non è ne’ un giardino ne’ la campagna, per quanto fertile ed attraente, ma la città. E’ la città descritta nell’Apocalisse, con dodici porte, lunga e larga dodicimila stadi; una città dunque in cui sono chiamati ad abitare tutti i popoli della terra. Di giorno le porte non saranno mai chiuse e non ci sarà più notte (Ap 21,25). Non occorre necessariamente avere davanti agli occhi una città ideale, ma almeno un ideale di città. Una città fatta di relazioni umane responsabili e reciproche, che ci stanno dinnanzi come un impegno etico. La città non è, dunque, il luogo da cui fuggire a causa delle sue tensioni, dove abitare il meno possibile, ma il luogo nel quale imparare a vivere. (…)”. (“Verso Gerusalemme, ed. Feltrinelli)

In questa città ci sono 12 porte: 3 per ogni punto cardinale. Perché la città è connessa a quello che gli sta intorno e non può pensare di bastare a se stessa. Le porte sono aperte: ai city users, ai nuovi abitanti, a chi vuole scommettere sul futuro della città. Ci sono tutti i popoli della terra: la pluralità e la diversità come elemento vitale della vita urbana. Ci sono il giorno e la notte che dialogano tra di loro: perché i tempi della città sono continuamente in cerca di equilibrio e rimescolamento. C’è la responsabilità e la reciprocità che devono connotare le relazioni tra i pezzi, gli sfridi, i diversi interessi che connotano lo sviluppo e la vita urbana. Nella città si impara a vivere, se la si abita e la si percorre.

La città ideale non esiste ma è indispensabile produrre un ideale di città. Una visione, una prospettiva, un modo di tenere insieme i popoli della terra, le 12 porte, i 12 mila stadi, il giorno e la notte, le tensioni e la vita, il lavoro e la produzione, la ricchezza e la povertà, la sostenibilità e la trasformazione, la coesione e la competitività.

Avendo io un filtro di lettura tutto politico e laicamente umano, che poco ha a che fare con la sacralità del Divino, credo che la Gerusalemme del cardinal Martini sia una straordinaria metafora per raccontare di cosa avremmo bisogno.

Vale a dire  una visione che produca senso, che tenga insieme, che intervenga sulla forma della città per  renderla adatta alla forma della civitas, adeguata ai tempi, capace di generare  modernità e senso. Una visione adattiva e non regolativa e basta, capace di “corrompersi” alla luce delle dinamiche e delle opportunità che cambiano ma che aborre il termine dal punto di vista etico e morale.

Cosa voglio dire? Regalo un’altra citazione, questa volta di Daniel Picouly, scrittore francese di origine meticcia nato e vissuto in una banlieue parigina. Quelle citès risultato del poderoso processo di pianificazione urbana che in Francia ha prodotto gli agglomerati periferici di case popolari – HLM si dice – che ogni tanto esplodono ma sempre producono fatica, conflitto, esclusione e marginalità. Se non ci credete andateci: ciascuno di noi, cresciuto nei serpentoni di cemento lontani dalla città valorizzata e densa, si sarebbe fatta la domanda di Daniel. E, lì, c’è stata una pianificazione dell’urbs così potente da diventare irreversibile nel momento in cui milioni di persone hanno cominciato ad abitarla.

Dice Picouly “quando ero piccolo mi chiedevo sempre cosa pensasse di me l’architetto che ha deciso che io dovessi vivere in un posto come questo”.

Per evitare che ci siano tanti Daniel che prima o poi – attraverso la letteratura o il conflitto – si chiederanno la stessa cosa, il tema è come produrre un ideale di città coinvolgendo le comunità di saperi che possono contribuire a generarlo. 

Nelle nostre città – a Torino come a Roma o a Milano – ci sono civitas invisibili e nascoste che macinano contemporaneità. Spesso non lo sanno, ancora più spesso nessuno si accorge di loro. Il decisore pubblico quando pensa alla città pensa all’urbs, alla forma, alla geografia. Il decreto Sblocca-Italia è solo l’ultimo dei provvedimenti che cercano di investire nella forma ritenendo che questa, oggi, produca sostanza. Cambiare paradigma, invece, imporrebbe di investire nel software, nell’intangibile, nell’energia sprigionata dalle civitas nascoste ed invisibili.

Serve coinvolgere i tanti Daniel che abitano la città (1,5 milioni in Italia, il 50% delle nascite ogni anno) e per il momento sono in panchina aspettando che una specie di ius soli li riconosca come figli del posto in cui sono nati. Sono quelli che fra dieci-quindici  anni saranno grandi abbastanza per lavorare, usare i servizi, mettere su famiglia, andare ad abitare da qualche parte, comprare casa e aprire un mutuo. Se questo paese avrà interesse a dare futuro ai propri giovani, che si chiamino Daniel, Mohamed o Salvatore. E se saprà investire sull’ugaglianza e la mobilità sociale come strumento anche di crescita economica e sviluppo, e non solo di giustizia sociale. Richard Florida parla delle 3 T come fattore di sviluppo delle aree urbane (Tolleranza, Talenti, Tecnologia). E’ un po’ tanto citato, è vero. Però poi non si fa nulla per dargli ragione.

Comunità di saperi significa competenze, tecnica, pensiero, interessi, buone pratiche, rischio, investimenti, trasparenza, condivisione, complessità degli obiettivi e semplificazione dei processi, ascolto ma responsabilità delle decisioni. Significa politica, restituendo a questa parola il suo significato generativo: politica che viene da polis – sforzo collettivo di produrre bene comune.

In questa fase confusa nella quale la stessa visione della modernità e dello sviluppo globale scricchiola un po’ ovunque, abbiamo la straordinaria opportunità di intersecare i paradigmi e provare, qui ed ora, in quell’angolo di strada o in quel pezzo di area dimessa di coinvolgere la comunità dei saperi. Che è fatta di abitanti vecchi e nuovi, di investitori privati con i loro interessi, di produttori di servizi e lavoro, di organizzazioni sociali, di urbanisti, architetti, sociologi e economisti, di politica e le sue rappresentanze, di istituzioni, di culture e sensibilità. E’ fatta di un patrimonio collettivo di saperi, tecniche, culture e punti di vista che vale la pena mettere in gioco. 

E’ fatta  di responsabilità..

Per produrre non tanto una città ideale ma almeno un’ideale di città.

E sia chiaro, quello che scrivo è il canovaccio della premessa. Perché viviamo un’epoca in cui le domande sono più delle risposte e, come diceva Sergio Leone : ”Nell’West non sono indiscrete le domande, a volte lo sono le risposte”. Se non si tenta di individuarle collettivamente, può succedere.

Però approfitterò de #Gli Stati Generali per raccontare un po’ di storie di civitas invisibili che possono produrre energia. Quelle che conosco, a Torino sono tante e le percorro da tanto tempo. Ma sono anche altrove, giacimenti di intelligenza collettiva su cui siamo seduti senza saperlo.

 

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