Torino
le periferie non esistono. O forse si
Periodicamente la politica e i media maistream scoprono le periferie, i luoghi urbani ai margini della città valorizzata dove precipitano – da sempre – le contraddizioni e la fatica.del cambiamento.
La stessa parola “cambiamento” è iscritta nella retorica della modernità, del #cambiamoVerso, del futuro. Non si usa per descrivere il magma della crisi urbana e dei marciapiedi delle città ai margini. E’ una parole che rimanda alla nozione di progresso. Quindi buono, bello e possibile.
Invece etimologicamente – e tautologicamente – il cambiamento è, semplicemente, cambiamento. Non c’è giudizio di valore possibile: è lo stato di transizione da un prima ad un dopo. In mezzo ci sono le fatiche, le contraddizioni, gli sfridi e le scale di grigio che ne rendono difficile il governo. Il cambiamento non è ne’ buono ne’ cattivo: deve essere interpretato, capito e governato. Possibilmente senza usare le taniche di benzina per spegnere gli inizi degli incendi.
Ci piaccia o no, il cambiamento rimanda alla complessità, non alla semplificazione. La differenza – politica, civile, istituzionale – sta nelle risposte, non nelle domande. In questi giorni –periodicamente succede da almeno 20 anni – si scoprono le periferie urbane e nel bisogno di fare, e fare in fretta, si dicono sciocchezze, si fanno sciocchezze e si aspetta che passi la nottata. Come succede periodicamente.
Mi occupo di rigenerazione urbana e periferie da almeno 20 anni, prima da tecnica e professionista poi, dal 2006, da amministratore locale in una città – una delle poche in Italia – che ha cominciato ad occuparsene almeno dalla metà degli anni ’90 con politiche pubbliche poderose, fondi straordinari (gli Urban europei, i Contratti di Quartiere, I PRU regionali eccetera eccetera), servizi dedicati, attivazione di cittadinanza attiva, innovazione amministrativa, azioni di inte(G)razione, presidi territoriali permanenti, agenzie di sviluppo locale e così via.
Non abbiamo nè risolto tutti i problemi ne’ trovato la ricetta risolutiva. Il magma della crisi ribolle anche qui e le reti sociali – che pure ci sono – si tendono con il rischio di lacerarsi e scoppiare. Come nel tiro alla fune: se non si tiene salda la presa si cade all’indietro ed i costi – sociali e civili – rischiano di essere altissimi.
Però alcune considerazioni sono in grado di farle.
Le consegno alla politica e ai media mainstream, un po’ come l’album delle fotografie del tabaccaio di Smoke, cult movie scritto e codiretto da Paul Auster. Noi amministratori locali fotografiamo sempre lo stesso angolo di marciapiede, il nostro angolo e ne cogliamo le impercettibili variazioni che possono offrire – se opportunamente interpretate – un quadro un po’ più sfumato della situazione.
1. le periferie non esistono. O meglio, non esiste un’idea gerarchica tra centro e periferie declinata esclusivamente in termini spaziali, geografici, misurabili. La città contemporanea è attraversata da città invisibili, socialmente marginali, latenti rispetto alla città valorizzata. Non è la loro distanza spaziale a determinarne la lontananza ma quella sociale, culturale, istituzionale.
Nelle città ci sono territori esclusi in cui abitano individui e gruppi sociali a rischio di esclusione.
Il territorio ha sostituito la classe. Il conflitto territoriale sostituisce il conflitto di classe in assenza, però, di coscienza collettiva e organizzazioni intermedie. Rispolverare un po’ di protomarxismo, anche se vetero e desueto, aiuta a capire cosa sta succedendo negli sfridi delle nostre città.
Si manifesta quella che Massimo Ilardi definisce “la relazione dell’individuo metropolitano con il potere senza passare dalla politica”. Il potere è rappresentato dal Sindaco – l’incarnazione fisica della legge 81 e del bisogno di istituzioni carnalmente vicine. O lui o nessuno. In mezzo, il niente oppure gli incendiari. L’assenza o le taniche di benzina. Si gioca allo schiaffo del soldato – nelle periferie italiane. Non è mai colpa di nessuno, tanto eventualmente c’è la legge 81 che ci dice di chi è la responsabilità.
2. se esistono, sono l’immagine della contemporaneità, nel bene e nel male. Spesso le periferie urbane – i quartieri in crisi, come li definisce la letteratura comunitaria europea- sono, più di altri, luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità: il mix sociale dei residenti, la multiculturalità e la coabitazione, la difficoltà di condividere spazi pubblici e relazioni private le rendono laboratori dove si sperimenta nuova cittadinanza, dove si rimettono continuamente in discussione regole di convivenza e di relazione. E’ nelle periferie, nei quartieri ai margini delle città storiche che la contemporaneità si produce in forme plurali e multiformi, spesso dissonanti ed antipatiche rispetto ad un’idea di modernità cristallina e patinata. Sono, spesso, laboratori di innovazione sociale perché è negli interstizi del loro disordine e dei loro conflitti che si contaminano linguaggi, forme culturali, modalità espressive, abitudini e identità. Sono luoghi dove il magma del cambiamento ribolle: non ci vuole niente a far esplodere scintille di conflitto
3. Nelle periferie urbane c’è vicinanza: quando si abita tutti in un punto le forme di coabitazione producono disagio. La frammentazione dei legami sociali, le solitudini urbane, lo scivolare nella fascia grigia della povertà sono bombe ad orologeria che si possono innescare o disinnescare. La domanda di cambiamento è territoriale ma si sbaglia a pensare che esista una risposta deterministica ai problemi. Detta in altri termini: di fronte alle rivolte urbane che se la prendono con chi sta accanto (i poveri, i rom, i rifugiati) non basta promettere che si rifaranno i marciapiedi, due passaggi di pulizia straordinaria o la ronda della pattuglia interforze. Servono, certo. Ma non bastano.
4. si fronteggiano la comunità di cura e la comunità del rancore. Ne parla Aldo Bonomi, nel suo saggio “Sotto la pelle dello Stato”: libro che andrebbe letto ed imparato a memoria per quanto indaga antelitteram il disagio urbano e la questione settentrionale. Nelle nostre città le comunità di cura – cittadini attivi, reti di solidarietà, processi di interazione e integrazione tra differenti, politiche di prossimità – ci sono, sono forti, costituiscono la risposta civile, istituzionale e civica alla crisi ed al cambiamento. Non fanno notizia e si muovono silenziose e operose. Negli stessi territori, negli stessi luoghi emergono le comunità del rancore, che esprimono disagio trasformandolo in rabbia, rivendicazione. Queste due comunità si fronteggiano e non si riconoscono, affrontano gli stessi problemi con modalità e atteggiamenti diversi. La politica non riesce ad essere quel luogo di ricomposizione degli interessi capace di trovare modalità di comune riconoscimento. Usa, ora l’una ora l’altra e tenta di strumentalizzarle.
5. quando la povertà lacera diventa problema di decoro urbano – e si accarezzano gli istinti feroci per convenienza elettorale – la battaglia è già persa.
Governare il cambiamento (sociale, demografico, religioso, antropologico, culturale, globale e micro locale) significa affrontare un lavoro immenso, perché c’è un infinito materiale per il quale si dovrebbe avere il coraggio e l’umiltà di togliersi la giacca, rimboccarsi le maniche e allentarsi il nodo della cravatta. Quello che la nostra politica, anche a sinistra, stenta a fare. O fa pochissimo.
Servono risorse economiche (quelle tagliate con l’accetta agli Enti Locali), politiche nazionali che affrontino la crisi urbana come priorità sociale prima ancora che urbanistica e “metrocubista”. Serve continuità, servono programmi che finanzino anche l’accompagnamento sociale e le azioni immateriali (mentre in Europa questo ormai è chiaro dal 1993 – dal Libro Verde sulla Questione Urbana della Commissione Delors, in Italia continuiamo a pensare le città dentro il Ministero delle Infrastrutture e come somma di politiche settoriali). Si continua, invece, a pensare alle periferie come luoghi fisici, non abitati. Qualche Archistar ci intrattiene sulla loro bruttezza. Qualcuno si sveglia e dice che vanno abbattute. Qualcun altro pensa che basta portarci un po’ di concerti di musica classica per ripagare l’abbandono e compensare la lontanza. Poi passa la nottata. E dopo un po’ si ricomincia daccapo.
6. serve tenere la barra dritta quando si apre il fronte della protesta sulle scelte pubbliche, perchè spesso è vincente una cosmogonia dove il valore immobiliare dell’alloggio è principio cardine a cui subordinare tutto il resto (il valore della vita umana, la libertà di pensiero, i diritti umani fondamentali, la costituzione, la legge) e davvero tutto diventa uguale, senza scala di priorità.
Tenere la barra dritta significa avere talmente tanto interiorizzato l’etica da non farne mai cenno, perchè di fronte al furore della paura serve la logica e non il dogma.
Non serve appellarsi ai valori, ai diritti umani, alla solidarietà. Serve esserci, pugnare, ascoltare, dare risposte che limitino i danni e stemperino la contrapposizione.
Serve ribaltare la logica. Significa non arrendersi di fronte all’illogicità dei ragionamenti, alle interruzioni continue, al furore. Significa accettare il fatto che nessuno è razzista, ma i marocchini no, non li vogliamo. Non per razzismo, ma perché il mio alloggio perde valore. E davvero non c’è razzismo, ma il terrore di un futuro che non si sa cos’è e gli argomenti che si oppongono sono tutti fragili, ma anche tutti corretti e logici, se si tiene il punto.
7. le città sono organismi viventi – ecosistemi fragili e delicati – ed hanno la linea di crescenza: quei tessuti molli che i bambini hanno alla fine delle ossa lunghe, cartilaginei e pronti a diventare ossa man mano che si allungano e crescono. Flessibili e delicati, perchè se crescono male le ossa saranno storte e da grandi si farà fatica a camminare. Ecco, se le città hanno una linea di crescenza questa sta in periferia, nelle paure, nei rifugiati che scappano dall’orrore e diventano ombre di un mondo che non li riconosce, negli insediamenti Rom vicino alle case popolari, nella coesistenza faticosa e brutale di un mondo che precipita tutto sullo stesso marciapiede.
8. la destra sta con gli scarponi chiodati nella linea di crescenza urbana: la usa, la manipola, la enfatizza.
Usa il dogma e non la logica, producendo micro-fratture continue che fanno crescere storte le ossa, le distorcono e le cristallizzano intorno alla paura. La destra – travestita da Salvini o da Casa Pound – finge di essere la soluzione, di fatto è il problema. Usa le taniche di benzina. Strofina i legnetti perché prendano fuoco. Urla che c’è l’incendio e si gode lo spettacolo come un piromane impazzito.
9. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti e di tempo: affrontare la crisi urbana ed il cambiamento in atto è un processo a medio-lungo termine. Il tempo non è una variabile indipendente. I cittadini vogliono risposte qui, subito e ora; la politica vuole risposte alla fine di ogni mandato. Chi si occupa di questi temi – a Torino come a Vancouver – sa che in realtà i processi di governo del cambiamento si producono in tempi molto più lunghi. Non è una resa ma una constatazione.
10. Questo significa adottare
– un approccio globale: guardare alla città nel suo complesso, migliorare la qualità della vita che promuova un approccio trasversale, integrare l’azione degli attori istituzionali e specializzati, superare la compartimentazione dei settori di competenza, rinnovare i sistemi e gli stili di lavoro;
– un approccio territoriale: collegare le politiche generali a specifici ambiti territoriali, mobilitare le energie e le risorse sociali e istituzionali locali, valorizzare la specificità dei singoli territori, entrare nel dettaglio dei luoghi
– un approccio progettuale: partecipazione, associazione, partnerariato non si costruiscono in astratto ma su progetti concreti in cui si trovano, pragmaticamente, soluzioni anche parziali ma che tengono insieme e riducono la distanza
Mi dispiace non riuscire a condensare nei 140 caratteri di un tweet il furore di questi giorni. Però questo è l’album dell’angolo di marciapiede che fotografo tutti i giorni. Il mio angolo di marciapiede, tutti i giorni per 20 anni. Vedete un po’ voi se serve a ricomporre il quadro.
Perché stiamo parlando di democrazia, non di periferie. In gioco c’è quello.
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