Smart city
Smart City all’italiana: davvero siamo all’avanguardia in Europa?
La prima difficoltà in cui ci si imbatte nella comprensione delle smart city è capire cosa siano. La città intelligente in fondo non presenta complicazioni diverse da quelle che si incontrano con le persone brillanti: se le conosci non puoi farne a meno, ma occorre un manuale di istruzioni per avvicinarle.
Da oltre un anno la Direzione generale per le politiche interne Parlamento Europeo ha compilato uno studio che fornisce informazioni e disposizioni sulle smart city del continente. Il report si propone di mappare e di sondare le dichiarazioni più autorevoli sul fenomeno, prima di passare al versante prescrittivo del documento. Non sarà un manuale di istruzioni, ma poco ci manca.
Anche il comitato scientifico europeo comincia da una richiesta di definizione, e si scontra con la varietà delle opinioni sul tema. I punti fermi però non mancano, e insistono in particolare sulla progettualità urbanistica, sulla raccolta e l’elaborazione di informazioni collegate ai piani in sviluppo, sull’infrastruttura tecnologica che permette di collegare conoscenze ad attività di realizzazione. La sintesi raggiunta in sede comunitaria si incardina su tre principi: il ricorso a piattaforme digitali, la formazione di partnership che coinvolgano diversi soggetti dell’economia e della società civile, lo sviluppo di servizi utili alla comunità. L’ordine previsto è rovesciato rispetto a quello della mia esposizione: correttamente, vengono elencati prima i requisiti di benessere pubblico, poi le infrastrutture tecnologiche, infine il contesto delle relazioni istituzionali. Come esige la razionalità, prima ci si interroga sugli obiettivi, poi si scelgono i mezzi.
Secondo il documento UE, l’Italia rappresenta un campione ideale per svelare i misteri della nozione di Smart City: se arrivate a pagina 40, potrete strofinarvi gli occhi a piacimento, ma il monitor continuerà a riproporvi il dato che oltre il 70% delle nostre città sopra i centomila abitanti è smart. Siamo leader dell’innovazione in Europa, insieme ai paesi scandinavi, all’Austria, alla Slovenia e all’Estonia. Siamo più brillanti degli inglesi, e terribilmente più inventivi dei tedeschi e dei francesi: i primi della classe non riescono a rimanere nella scia di quello che si fa a Milano, Bari e Torino. Sbalorditivo.
Vale la pena allora dedicare un po’ di tempo alla ricognizione di un portale tematico dell’Anci sui progetti smart city attivi nel nostro Paese. Le iniziative sono 1309, coinvolgono 158 comuni, impegnati in otto macro-gruppi tematici: amministrazione, mobilità, economia, energia, ambiente, persone, stile di vita, pianificazione. La prima curiosità che andrebbe soddisfatta è la ragione per cui l’organismo di coordinamento dei comuni italiani abbia dovuto snocciolare la tassonomia dei lavori in corso in inglese. Un suggerimento potrebbe arrivare dal fatto che le etichette si sovrappongono quasi alla perfezione a quelle indicate dalla direttiva europea; rimane l’enigma della trasformazione della governance comunitaria in government (un retaggio del vecchio mito dell’e-government che piaceva tanto a Ross Perot?), e l’introduzione di altre due classi, energy e planning. Ma, per una volta che siamo più avanti delle richieste europee, perché farsi tutte queste domande?
Un secondo interrogativo, più serio, riguarda la nozione di open data che ispira la pubblicazione dei dati. L’unica forma di accesso ai contenuti è la visualizzazione dei box in html, che si caricano otto per volta sulle pagine del sito. Senza alcuna pretesa di web semantico, basterebbe poter scaricare i dati dei progetti almeno in un banale formato Excel o csv. Invece nulla: l’esplorazione è possibile solo per operatori umani, anche pazienti e ben motivati, che guardino le pagine del portale e le scorrano un pezzo per volta, iterando la richiesta di altri contenuti ogni otto box controllati. Una macchinosità davvero poco smart per chi è tanto progredito nella pianificazione di intere città intelligenti.
Forse sarà per questo che, sebbene i progetti coinvolgano una popolazione complessiva di oltre 15 milioni di italiani, per un investimento complessivo di quasi 4 miliardi di euro – gli utenti del sito a gennaio 2016 siano stati solo mille, almeno secondo le stime di un popolare strumento di monitoraggio come Similarweb. Ma ancora più curiosa è la situazione per cui oltre un quarto delle risorse finanziarie complessive finiscono per essere assorbite da una categoria di investimento che nel report europeo non compare nemmeno, l’arcano planning, popolato solo da 103 progetti, il 7,9% del totale. Di che tipo sono questi progetti al quadrato, questi piani di pianificazione?
Se ci avventuriamo in una perlustrazione preliminare, obbedendo all’ordine proposto dal sito, incontriamo tra gli interventi più recenti quelli avviati o già completati dal comune di Cagliari. 15 milioni di euro sono l’investimento per il progetto ITI Is Mirrionis-San Michele, volto al «recupero edilizio di contesti caratterizzati da elevato disagio abitativo con prevalenza di edifici di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), mediante interventi di riduzione dello stato di degrado degli immobili e degli spazi pubblici». 133 milioni di euro sono invece richiesti dall’Accordo di Programma per il Mastreplan di Sant’Elia che si articola «in due fasi: la prima prevede la riqualificazione degli spazi comuni e degli spazi pubblici con la dotazione di servizi e infrastrutture; riqualificazione degli spazi aperti e realizzazione aree verdi; la seconda prevede il miglioramento delle caratteristiche dei fabbricati attraverso manutenzioni degli edifici stessi».
Nella seconda area per intensità di spesa (22% del totale), la mobilità, troviamo i 32 milioni di euro con cui si finanzia il Ponte Asse Nord Sud di Bari, in cui «oltre alla realizzazione del Ponte, è prevista la costruzione di tre rotatorie e di una bretella di collegamento tra via San Giorgio Martire e l’asse Nord Sud»; compaiono anche investimenti come i 20 milioni di euro che servono a costruire il Metro Cagliari, che vanterà il merito di «migliorare i tempi di percorrenza e rendere la città sempre più sostenibile».
Ristrutturare palazzi e costruire ponti naturalmente sono attività legittime e lodevoli. Il problema è che allo stesso titolo anche gli antichi Romani potrebbero pretendere di elencare i loro interventi urbanistici su tre continenti come Smart City (si sarebbero dette Callidae Urbes). E se ci sembra improbabile che le pietre del Colosseo, o quelle di Piazza Armerina possano imporsi come campioni esemplari delle prescrizioni comunitarie – allora dobbiamo sospettare che la libertà di interpretazione dei requisiti europei si sia spinta un po’ troppo oltre anche in molti progetti dell’ANCI. Pure costosi. Se non bastasse, lo denuncerebbe la constatazione, ricorrente nelle schede dei progetti, della mancata produzione di proprietà intellettuale nello sviluppo del lavoro, dell’irrilevanza delle condizioni ambientali e della non replicabilità delle esperienze compiute e delle conoscenze acquisite.
Tra i parametri di riconoscibilità di un progetto smart figurano alcuni elementi chiave che non possono essere ignorati: in estrema sintesi, è richiesto che il disegno di rilevazione e intelligenza sui dati, insieme alle piattaforme tecnologiche che processano questa elaborazione, produca condizioni di competitività nel contesto dell’economia e dello sviluppo contemporaneo. L’orizzonte di confronto è l’economia della conoscenza che sostiene le nazioni in crescita, e non la (pur nobile) via Appia. La generazione, l’arricchimento e l’impiego dell’informazione, sono ormai questioni inaggirabili.
Sarebbe un errore grossolano confondere la questione delle smart city con l’applicazione di tecnologie all’avanguardia. Il passaggio preliminare resta la comprensione delle esigenze della comunità cittadina, con il passaggio ad un grado di intelligenza della necessità e di efficacia del servizio, che si devono spingere al livello della personalizzazione. Il progetto Cagliari 2020 esemplifica questa condizione, con lo sviluppo di una rete di informazione urbana, capace di rilevare e di esaminare in modo pervasivo i dati sul traffico, e la posizione e i tempi di percorrenza di tutti gli autobus; l’applicazione delle informazioni aggregate permette di prevedere la velocità di spostamento dei mezzi, attivando gli impianti dei semafori sulle strade del capoluogo. Raccolta di dati e implementazione replicabile di intelligenza: la città agile è il paradigma del capitalismo liberale contemporaneo.
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