Siena

Nel groviglio di Siena, dove tra massoni e banchieri puoi capire l’Italia

16 Giugno 2015

Il modo migliore per raccontare Siena è non essere di Siena. Bisogna dunque essere forestieri, essere accolti come tali, percepiti come tali, non cedere mai alla tentazione, in una città dove tutto ciò che si scrive viene letto, virgola per virgola, come un posizionamento o un riposizionamento, di schierarsi. Magari involontariamente. E quindi, prima regola, mantenere un divertito distacco dal mondo, dalla Contrada, dal partito, dal babbo Monte o quel che ne resta, dalle sirene più o meno soavi che cantano e ti attirano e provano a comprarti, magari invitandoti a vedere il Palio da Palazzo Sansedoni, dopo un pranzo in uno dei ristoranti di Siena.

La meraviglia di Siena sta nella sua contraddizione, nel suo equilibrio nello squilibrio. Una democrazia oligarchica. Lo strapotere e lo strapaese che si reggono a vicenda. Un desiderio di autosufficienza che è arrivato al livello di autarchia. Meglio non essere nati “sulle lastre”, come dicono i senesi riferendosi agli autoctoni veri, per poterla raccontare con lucidità. Perché c’è sempre qualche momento dell’anno in cui impazzire; che sia il Palio di luglio o quello d’agosto, che sia una primaria o una seduta del Consiglio comunale, che sia una trattativa politico-finanziaria, che sia un articolo di giornale.

Ho iniziato a occuparmi di Siena che ero molto giovane. L’ho sempre trovata rassicurante, anche nella sua fase decadente, e ne sono sempre stato attratto, come si può essere attratti da un labirinto, da qualcosa che ti confonde. La confusione può generare un certo fascino, e Siena è come una donna affascinante che non ti racconta tutto. Siena è un labirinto; chi ci va le prime volte, ci si perde, magari dopo aver percorso la maledettissima Firenze-Siena, una delle strade più brutte mai viste.

Le prime volte, insomma, chi ci va brancola, vede il Duomo in lontananza, percorre qualche via e se lo trova accanto senza capire come e perché ci è arrivato. Siena è la città delle grandi ambizioni spezzate, dimezzate, è una città per anni sovradimensionata in ogni suo aspetto. Finanziario, bancario, sportivo, politico. È specializzata in grandi progetti a metà, come quello del Duomo Nuovo, i cui lavori per raddoppiarlo dovevano cominciare nel Trecento. È una città in cui c’è poco senso del realismo, fuori scala, non è una città “a misura d’uomo”, come si sente dire, ma a misura di sogno. Una catena d’illusioni. Dove per anni ci si è illusi di avere la banca migliore del mondo, la banca più sana del mondo, il partito più forte di tutti, la squadra di basket imbattibile. Ma ogni cosa, appunto, era fuori scala. Era fuori scala la Mens Sana, il Siena Calcio, tutto alimentato dai soldi della Banca. Una volta finiti i soldi, è finito il sogno.

Nonostante tutto e anzi proprio per tutto questo, però, mi è sempre parsa un incantevole microcosmo a parte, una Repubblica isolata dal resto del mondo, un regime autarchico in grado di sopravvivere grazie alla mucchina da mungere, quella Fondazione che ha versato bei soldi sul territorio. Ho sempre avvertito, in quella capacità di isolamento, una grande famigliarità. Sarà perché anche io l’ho sempre cercata, quella solitudine speciale, quel mantenersi intatti. Siena è una fotografia, perché resta sempre uguale a se stessa.

C’è stato un solo momento in cui ho avvertito un forte disagio, al limite del vomito. Quando Siena ha perduto la sua innocenza, ai miei occhi (per qualcuno probabilmente non ce l’ha mai avuta), quando un giorno di marzo David Rossi s’è buttato da Rocca Salimbeni. È così che quella città mi ha mostrato il suo cuore di tenebra, quella città così pulita che per anni ha cavalcato le classifiche del “Sole 24 Ore” sulla vivibilità, e continua a cavalcarle, sempre sottovalutata nel- le cronache giornalistiche nazionali perché in fondo le città importanti sono altre, le cose importanti succedono altrove, perché il sistema politico-mediatico è romanocentrico e tutto ciò che di politico, sociale, economico avviene fuori dal raccordo anulare è solo provincia. Siena è una meravigliosa provincia. Come lo è Firenze, provinciale.

È una grande metafora italiana, Siena. Non è una storia locale, quella che racconto, ma una storia di tutti e per tutti. Siena è la nostra storia, Siena è una storia per l’Italia. Perché l’Italia intera è una provincia, anzi sono tante province. Al tempo stesso, Siena è un’anomalia, perché trovatelo un altro posto in grado di farsi sostantivo, senesità, di creare un sistema in cui politica e finanza si tengono insieme fino a schiantarsi. Ma Siena anzitutto è una storia. Un grande romanzo politico. Gli elementi ci sono tutti: le guerre di potere, un suicidio eccellente, la decadenza, la crisi finanziaria, la ritualità della Storia a fornire il contesto adeguato. Manca il sesso, o forse c’è ma è ben nascosto; così nascosto che per poterne scrivere liberamente bisognerebbe proprio fare un romanzo.

Non è questo il caso, non ora. Qui si fa un lungo ritratto della città e non pretendo certo che sia esaustivo. Non è un libro di finanza, non spiego che cosa sono i derivati e come operava la “banda del 5 per cento”. Non mi interessava e non mi interessa spaccare il capello in quattro, in otto o anche in sedici, sulla politica locale, pure ben presente nei suoi aspetti macroscopici, cioè nella misura in cui tutti ci possiamo trovare qualcosa di nostro. Forse qualche senese che mi conosce, o che comunque conosce bene la città, potrà stupirsi di non trovare menzionato qualcuno che an- dava, sicuramente, menzionato. Quella riunione. Quel fatto. Quell’assemblea. Quella dichiarazione. Quell’episodio. Ma io non volevo fare l’enciclopedia senese: ce ne sono già altre. Io, lo ribadisco, volevo raccontare una storia, non la storia. Una storia che ho vissuto anche in prima persona; per questo mi sono permesso di aggiungere qualche episodio significativo, avvenuto svolgendo il mio lavoro di cronista, per rafforzare la narrazione.

È una sensazione strana sentirsi a casa anche in un posto in cui non sei nato, specie in un posto come Siena, dove se sei forestiero, appunto, ti guardano da sottecchi, vogliono subito capire da che parte stai. Sei un ceccuzziano, un monaciano, un picciniano, di quale loggia fai parte, tu, ragazzino. Di che Contrada sei. A quale massoneria appartieni. Siena è un eterno duello. Non importa che i soldi siano finiti, che l’innocenza sia perduta, che l’orrido mercato – orrido per gli autarchici – abbia finito per fare toc toc a Rocca Salimbeni e per entrare, dopo anni di protezionismo, nella città incantata. Un tempo c’era un sistema, e c’è ancora in parte: si chiama “groviglio armonioso”, come l’ha ribattezzato Stefano Bisi, uno degli attori di questo racconto senese, direttore di giornale, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.

Siena era Siena, negli ultimi anni, anche perché aveva la squadra di basket più forte d’Italia. Una squadra di calcio modesta, ma in serie A. Una banca, la terza banca del Paese. La Fondazione, che finanziava progetti ed eventi di ogni tipo. A un certo punto, il mercato ha bussato alle porte della città e ha chiesto conto di errori, strapotere e malagestione. Ed è venuto giù tutto. Siena ha dovuto cominciare a cambiare pelle. In banca sono arrivati i manager forestieri. La squadra di basket ha chiuso il suo ciclo, il Siena calcio è finito in B ed entrambe le società sono poi fallite. Però, può crollare tutto. Ma non le tradizioni secolari. Non il Palio. Non i suoi riti. La senesità, comunque vada, sopravvive.

Quel che è interessante è che la città, salvo qualche occasione, non è scesa in piazza. Non ci sono stati tumulti, manifestazioni, quasi che i suoi abitanti assistessero all’inesorabile avanzata della decadenza con impotente fermezza. Come a dire, è andata così, non ci si può fare nulla. Non ci puoi fare nulla se prima avevi le strade quasi lastricate d’oro e ora le società sportive falliscono, se prima c’erano principi e ora quei principi sono fuggiti. Continuano ad andare a cavallo – come Giuseppe Mussari – ma si nascon- dono nelle loro tenute di campagna. È il tempo la miglior cura, perché abbatte perfino i duelli. Il tempo ci porta via tutti. Siena è questo racconto: una classe dirigente che si è fumata un patrimonio, dopo essersi divisa, litigata, rappacificata, usata vicendevolmente per convenienza, passione, amore e interesse. Niente vi accade per caso, perché ogni mossa degli attori è finalizzata a qualcosa. Ogni candidatura non nasce spontanea, ogni presidente di banca, di partito, di circolo, di associazione, non arriva lì per coincidenza. C’è un costrutto, un disegno. La senesità – così rarefatta e di varie declinazioni costituita – è un’ideologia potente, perché ha resistito per secoli: mentre altrove tutto si sfarinava, lì da quelle parti teneva. Il fallimento delle classi dirigenti è rappresentato dal tonfo degli ultimi anni. Da abbiamo una banca ad avevamo una banca. Da abbiamo una squadra di stelle del basket ad ab- biamo una società marcita.

Se il labirinto conquisterà anche voi come ha conquistato me dopo le prime volte che sono andato a Siena, vi appassionerete a personaggi locali e di strapaese che ave- vano la ricchezza dalla loro parte, una storia plurisecolare a dargli forza e un’inesauribile, incrollabile fiducia nell’illimitatezza dei propri mezzi. Ma anche una certa spregiudicatezza mischiata a ingenuità, come dimostra il caso dell’ex rettore Silvano Focardi, che aveva fatto acquistare all’università 360 chili di pesce, tra cui ricciole, gamberi rossi e aragoste, insomma, i prodotti più pregiati del Mediterraneo. Pare che servissero per una ricerca scientifica. Pubblicata a distanza di quattro anni.

(Dalla premessi di “Siena Brucia”, David Allegranti, Laterza, 2015)

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