Partiti e politici

Una vittoria più grande di loro: il filo che lega Virginia Raggi e Nigel Farage

4 Luglio 2016

Nigel Farage ha detto che con la politica politicata ha chiuso. Lui, leader indiscusso dello Ukip, e indiscusso vincitore del referenudm che ha decretato la Brexit come maggioritaria nella volontà popolare dei cittadini del Regno Unito, abbandona la guida del “suo” partito, dicendo che non voleva diventare “un politico di professione”, che ha “raggiunto il suo obiettivo” e che certo continuerà a supportare il suo partito e le sue idee, ma da più lontano. Certo, continuando a sedere nel remunerativo e tutto sommato poco responsabilizzante parlamento europeo di Bruxelles. La sua “uscita di scena” lascia naturalmente spazio a molti dubbi, a parecchie perplessità e a dietrologie di segno diverso. Ha ottenuto quel che voleva in nome dei suoi solidi e risalenti rapporti con la Russia di Putin, è lecito pensare, e adesso che se lo sbuccino altri, questo cesto pieno di patate bollenti. Oppure, all’opposto, ha capito che il disastro combinato non sarebbe gestibile, che la Exit stessa non è davvero praticabile, e allora sia qualcun altro a gestire una tortuosissima marcia indietro. Vedremo. Di sicuro resta un dato: dopo che Boris Johnson, leader della frangia conservattrice che si opponeva a Cameron e che ha voluto la exit, non ha accettato di formare il governo, frenato da lotte di potere interne al suo partito, il fronte del leave perde l’altro suo pezzo “pregiato” e, sicuramente, il suo uomo di copertina.

Da una capitale all’altra, da Londra a Roma, la scena di contesto è molto diversa, ma qualche similitudine di sostanza sembra emergere. Eletta a furor di popolo sindaca di Roma, Virginia Raggi non riesce a uscire dal pantano in cui si trova dilaniato, tra correnti e guerre interne, il suo Movimento di riferimento, cioè il Movimento Cinque Stelle. Come un partito qualsiasi, in questi giorni, il non partito fondato da Grillo e Casaleggio sembra alle prese con una sfida più grande di sè: ma che si rivela più grande prima ancora di affrontarla. Perché qui, a far tremare le vene nei polsi della Raggi e del suo gruppo, non è (ancora) l’ingente debito di Roma, il disastro di una città male amministrata o non governata da tanto tempo, l’inimicizia di un governo sicuramente ostile a un buon successo, il taglio continuo delle risorse combinato alla dissipazione sistematica delle stesse all’interno della macchina comunale e delle partecipate, le pesanti infiltrazioni criminose e mafiose che infestano la capitale. No, a far traballare una giunta non ancora nominata né insediata, fino alla minaccia di preventive dimissioni, che sarebbero state avanzate a Grillo dalla Raggi, sarebbero le guerre intestine che dilaniano il movimento, lacerato da faide e bande che ruotano attorno a Taverna, Lombardi, Di Maio, la stessa Raggi, il ruolo della Casaleggio srl, l’ex candidato De Vito, e così via. Intanto, il 7 luglio fatidico, giorno del primo consiglio e dell’annunciato insediamento della giunta si avvicina a larghi passi. Ormai è dietro l’angolo: eppure il pantano sembra avere la meglio, e anzi diventare sempre più grande.

Son due storie molto diverse, due movimenti sicuramente diversi, le sfide da cui escono contemporaneamente vincitori, eppure infragiliti e al momento sconfitti sono sicuramente diversi: perché un conto è chiedere e ottenere un referendum consultivo per uscire dall’Europa, e altro è candidarsi, ritualmente, a guidare l’amministrazione di una città, foss’anche la capitale. E però, qualche tratto comune alle due vicende, naturalmente in attesa di capire cosa succederà a Londra come a Roma, e lasciando a entrambi i fronti tutti i benefici del dubbio del caso, è ben possibile ritrovarlo. Entrambi i vincitori, infatti, dopo aver comprensibilmente cavalcato il malcontento e la rabbia – entrambi sentimenti comprensibili e umani, quindi politici, chi se ne scandalizza non fa i conti con la storia – si sono trovati grandemente impreparati per la fase in cui il voto deve diventare “azione”. Azione vuol dire avere un piano pronto e un personale politico e tecnico adatto: per negoziare l’uscita dall’Europa con i “cattivi” tedeschi (che difficilmente diventano più buoni in un contesto del genere…). Azione vuol dire una road map precisa per arrivare a formare una giunta dignitosa e che compensi le varie anime del movimento, a Roma, essendo consapevoli che, proprio perché non si appartiene al circolo dei poteri consolidati, le critiche saranno più pronte, più cattive, più puntuali e senza sconti. È la politica, bellezze, e voi non ci potete fare niente, se non dimostrarvi più forti, o almeno forti quanto basta.

In attesa, lo ripetiamo, di vedere come la situazione evolve, e se il primo fotogramma di grave fragilità evolve in qualcosa d’altro, gli insegnamenti sono dunque doppi. A chi si candida in nome del cambiamento radicale del sistema, Londra e Roma ricordano, una volta di più, il dovere della responsabilità, che qui non si gioca a risiko ma con quella cosa bella e fragile che si chiama democrazia. Prendersi il piatto senza prepararsi a maneggiarlo con la cura, la preparazione e la solidità che serve non rende i nuovi arrivati migliori dei vecchi. Ai quali, tuttavia, vanno ribadite le critiche che hanno portato a queste ed altre sconfitte. Perché l’inadeguatezza, nel caso di Farage il cinismo, in generale l’impreparazione di chi ha preso il potere con un colpo di vento non rende meno grave il distacco dalla realtà, dal malessere delle persone che votano, da parte della politica. Che “l’antipolitica” non sia meglio non consola, e non basterà a ricominciare dalla casella di partenza. Su questo, sarà bene che tutti ci si metta l’anima in pace, e tutti si ricomincia a combattere la propria – giusta e non violenta – guerra.

 

 

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