Roma
Una capitale a Cinque stelle
Un sindaco a 5 Stelle alla guida della città eterna. Se il 2015 per Roma verrà ricordato come l’anno degli arresti di Mafia Capitale, della caduta di Marino e del sogno infranto del Dream Team, il 2016 potrebbe essere l’anno giusto per un Campidoglio griffato Beppe Grillo. La crisi del Pd romano e quella del centrodestra, ancora appeso alle sorti di Berlusconi e alla disfatta dell’era Alemanno, così come la “restaurazione” avviata dal commissario Francesco Paolo Tronca, con il benestare del premier Matteo Renzi, alimentano di giorno in giorno la speranza per il Movimento 5 Stelle: conquistare Roma si può. Basta volerlo. Di sicuro, osservando i risultati ottenuti da chi ha governato Roma negli ultimi 20 anni, l’esperienza non è un limite. Anzi. Il problema, arrivati a questo punto, è solo la volontà. “Se avessimo paura di governare Roma non potremmo neppure pensare di voler governare il paese”, ha detto solo pochi giorni fa il guru Gianroberto Casaleggio intervistato dal Corriere della Sera. Ma vincere Roma, e soprattutto provare a governarla senza riuscirci, rischia di trasformarsi in un boomerang che trascinerebbe nel baratro l’intera esistenza politica del Movimento, il cui vero obiettivo sono le prossime elezioni nazionali. Per questo, meglio tenere i fari bassi.
D’altronde, il monito con cui a giugno Renzi diede il via alla caduta del sindaco Marino è sempre valido. “Non basta essere onesti per amministrare”, soprattutto in una città dove il connubio fra lobby, partiti e sindacati, con il beneplacito dei maggiori organi di informazione, ha sempre respinto con fermezza ogni istanza di cambiamento nella vita politica. L’esperienza del “marziano”, tradito addirittura dai suoi per non aver eseguito fedelmente le indicazioni del proprio partito, è un avvertimento chiaro per chiunque. E i 5 Stelle, che nel caso di vittoria dovrebbero confrontarsi con un Governo e una Regione più che ostili, lo sanno. A tal punto che quando Beppe Grillo parla “effetti collaterali abbastanza pesanti” in caso di vittoria a Roma, lo scenario prospettato dal comico genovese appare più che probabile.
Un dato è certo e rappresenta il paradosso più grande che separa il Movimento dalla presa del Campidoglio. Mentre tutti i partiti, Alfio Marchini a parte, faticano a trovare un nome spendibile, l’unico partito che il nome ce l’avrebbe si complica la vita nel tentativo di rendere spendibile un altro nome. Con il deputato Alessandro Di Battista, il più amato dei parlamentari romani, l’approdo al ballottaggio per il candidato sindaco sarebbe quasi certo, ma il regolamento interno non lo permette. “Sulla coerenza non si transige”, ripetono un po tutti all’interno del Movimento con fierezza, contribuendo ad aumentare il livello di difficoltà di una strada per nulla in discesa nonostante l’apparenza.
Perché se è vero che i sondaggi sulle intenzioni di voto continuano ad evidenziare la crescita del Movimento 5 Stelle, è innegabile come le elezioni amministrative, dove la presenza di liste civiche tradizionalmente erode consensi ai partiti tradizionali, abbiano sempre punito il M5S, che, a differenza del Pd, non può ancora contare su quei capibastone, già tutti riarruolati anche nel nuovo corso avviato dal commissario Pd Matteo Orfini, capaci di muovere consensi sui territori con estrema facilità. E’ successo nelle regionali del 2013, dove nello stesso giorno in cui il M5S ottenne alla Camera il 27,27 %, la lista regionale raccolse solo il 16,85%, così come alle successive amministrative comunali, sempre nel 2013, dove addirittura il dato scese al 12,82%. Le cose andarono meglio l’anno successivo, alle europee del 2014: nonostante l’exploit di Renzi che permise al Pd di superare il 40%, gli uomini di Grillo riuscirono quasi a raggiungere il 25%, potendo contare sull’alta percentuale di astensionismo, forse il maggiore alleato per la scalata di Grillo e i suoi al Campidoglio.
La speranza è che le inchieste giudiziarie possano aver aiutato il M5S a colmare il divario almeno con il Pd. Per questo in assenza di un nome forte, a condurre la campagna elettorale saranno i big come Luigi di Maio, Paola Taverna e lo stesso Di Battista, i quali affiancheranno per tutto il percorso il candidato sindaco che uscirà fuori dalla rosa dei 233 candidati che hanno presentato domanda attraverso il blog centrale. Fra loro, nonostante le indiscrezioni, non dovrebbe esserci il magistrato Ferdinando Imposimato, che avendo già ricoperto due legislature parlamentari tra le fila del Pci (e poi del Pds), a norma di regolamento, non potrebbe essere candidato. Chi ci sarà, di sicuro, sono i consiglieri capitolini uscenti Marcello De Vito, Daniele Frongia, Enrico Stefano e Virginia Raggi, sostenuta dalla componente forte dei parlamentari romani, ma non per questo destinata a vincere.
In copertina, Alessandro Di Battista, (CC) foto tratta da Flickr
“La selezione dei candidati, che avverrà in rete, è molto più aperta più di quanto si immagini”, racconta chi conosce il Movimento dall’interno, e nessuno dei 4 consiglieri uscenti, nei 2 anni e mezzo di opposizione al centrosinistra è riuscito a ritagliarsi un ruolo di rilievo rispetto agli altri. Il peccato originale, se così si può chiamare, rimane ancora quello del giugno 2013, quando il gruppo capitolino, attraverso il capogruppo Marcello de Vito, il candidato sindaco, che vinse le primarie interne con il sostegno delle “alte sfere”, promosse in maniera autonoma un referendum per rispondere alla richiesta del sindaco Marino, che ai 5 Stelle aveva chiesto un nome da inserire eventualmente nella giunta. Il blog centrale subito scomunicò l’iniziativa del gruppo, che per l’intera durata della legislatura ha sempre mantenuto un profilo basso.
“La presenza del Movimento all’interno dell’amministrazione ha portato dei benefici soprattutto per quanto riguarda la trasparenza”, spiega chi ha collaborato con loro da vicino. Inoltre, i rapporti di collaborazione, come quelli con l’Usb sul tema della casa, con il sindacato autonomo dei lavoratori Atac, Cambia-Menti, o con i comitati in lotta contro l’Ecodistretto di Rocca Cencia, hanno permesso al Movimento di estendere il proprio bacino elettorale. Ma a differenza del gruppo regionale, che in varie occasioni è riuscito a mettere in difficoltà il governatore Nicola Zingaretti, come sulle dimissioni del capogruppo Pd Marco Vincenzi, quello capitolino, nonostante le inchieste giudiziarie della Procura di Roma abbiano falcidiato un’intera classe dirigente, a fatica è riuscito a imporsi nelle scelte politiche, anche perché i temi al centro dell’inchiesta Mafia Capitale, come nomadi e accoglienza profughi, dove a livello nazionale si sono presentate le maggiori divergenze nell’elettorato, continuano ad essere argomenti tabù.
La partita è aperta, insomma, e coinvolge anche i 15 municipi, le cui candidature, assicurano dall’interno, saranno decise una volta ratificate quelle del comune. Il lavoro nei territori, seppur a fari spenti, è stato incessante negli ultimi due anni. Le diatribe interne che a Roma hanno accompagnato il Movimento sin dall’ingresso in Parlamento, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni senza bando dei collaboratori parlamentari, hanno allontanato una parte degli attivisti storici, senza però indebolire eccessivamente la base, che nel tempo è profondamente cambiata. Persa la speranza di conquistare il municipio di Ostia, vera e propria roccaforte grillina, dove il commissariamento imposto dal Governo, dopo l’arresto del minisindaco Pd Andrea Tassone, farà slittare le elezioni, la sorpresa potrebbe venire dal municipio di Tor Bella Monaca, il VI, un territorio popolato da oltre 250 mila abitanti, dove in varie occasioni il M5S è risultato essere la prima forza politica, sfiorando anche il 35%. Numeri alla mano, è proprio da qui che potrebbe partire la scalata al colle più ambito e temuto allo stesso tempo: il Campidoglio. Sempre che ci sia la volontà, ovviamente.
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