Roma
Una Nuvola dal passato
La prima volta che visitai la baia di Scopello venni accompagnato da un cugino di mia madre. Lui, uomo di campagna, mentre noi facevamo il bagno stava impettito sotto il sole cocente vestito di tutto punto – giacca, camicia, calza lunga e mocassini. Era un uomo di altri tempi.
In questi giorni si è inaugurato il Centro Congressi all’Eur – la cosiddetta “Nuvola” di Massimiliano Fuksas – e la maggior parte della critica italiana è entrata, giustamente, in fermento. I commenti si sono concentrati sulla forzatura formale che non corrisponde alla sua realizzazione sostanziale (una nuvola fatta di metallo?), sui costi elevatissimi (300 milioni), sulla soddisfazione di non avere lasciato incompiuta un’altra grande opera, sulla bellezza scenografica dello spazio interno.
L’aspetto interessante però, al di là delle scelte architettoniche, è che questo edificio appartiene a un’altra epoca. Quando venne bandito il concorso nel 1998 la preoccupazione più grande era costituita dall’imminente Millennium Bug e dal prezzo del petrolio. L’architettura aveva iniziato a scoprire l’era digitale e le possibilità che essa avrebbe potuto offrire ai progettisti. Gli architetti olandesi sfornavano libri dal dorso sempre più spesso, gli americani sperimentavo forme ardite sempre più plastiche. In Italia venivano messe on line le webzine di architettura così come accadeva nel resto di Europa. Insomma era un altro mondo e il progetto dell’architetto romano faceva da cerniera – grazie alla sua presentazione giocata tra approccio pittorico e uso del digitale – tra il mondo analogico dell’architettura tradizionale e il nuovo millennio.
Alla data d’inaugurazione, passati diciotto anni, lo stesso progetto appare come il cugino di mia madre.
L’attentato alle Torri gemelle, le guerre in Iraq, le crisi economiche e persino una sindaca romana eletta senza partiti: in questi diciotto anni il mondo è cambiato ma il centro congressi è rimasto coerente a se stesso, imprigionato da una soluzione (e una procedura) che non consentiva, per sua natura, alcuna trasformazione in corso d’opera. E mentre il dibattito architettonico è stato impegnato a trovare nuove parole d’ordine e argomenti d’interesse per resistere a una crisi che sembra non avere fine – la Biennale di Venezia quest’anno ha cercato di fare una sintesi in questa direzione – la costosissima scatola trasparente si presenta oggi con un’indifferenza totale rispetto a un contesto – non quello fisico dell’Eur ma quello generale della società italiana – che non ne capisce l’esatta funzione. Un po’ come il Padiglione Italiano all’Expo che emergeva per la sua chiassosa opulenza in mezzo a padiglioni che cercavano, non sempre riuscendoci, di interpretare al meglio il tema proposto. Non è un caso che per entrambi il futuro gestionale sia alquanto misterioso.
L’equivoco più grande, comunque, risiede nel credere che esso sia il simbolo di una nuova Italia, capace di #fare e impegnata a finire i lavori senza stare troppo a discutere. Perché in realtà la “Nuvola” è stata vittima della tipica incapacità italiana di riuscire a sincronizzare le scelte rispetto ai cambiamenti che si susseguono nella contemporaneità. Un ritardo cronico che alla fine ci costringe ad accontentarci e a vedere il lato positivo, o perlomeno il meno peggiore, comunque.
Cosa ne sarà di questo impegnativo edificio lo scopriremo in un futuro nemmeno tanto immediato (passerà almeno un altro anno perché venga aperto in maniera effettiva).
Che almeno questo non sia nebuloso.
p.s: il modello di auto sul cui parabrezza veniva schizzata la sagoma del Centro Congressi ha subito tre restyling, il Cloud è un sistema di archiviazione on line. E molte delle webzine sopracitate non esistono più.
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