Roma

Un commissario, 7 subcommissari. Vogliono dirci che Roma è la Chicago anni ‘20?

15 Ottobre 2015

Di commissario in commissario, sempre più su, sempre più in alto, come diceva il grande Mike in cima al Cervino sventolando la bottiglia di grappa.  «Un supercommissario per la Capitale» strilla a tutta pagina il Sole 24 Ore, enumerando titoli, responsabilità e competenze che peseranno sulle spalle di questo pover’uomo chiamato alla bisogna. «Ma trattandosi di Roma – aggiunge il Sole per soprammercato – nelle intenzioni del Viminale e soprattutto di palazzo Chigi, al commissario si affiancheranno una serie di sub-commissari, sei o sette (bum!) in grado di seguire le questioni specifiche della capitale, Giubileo in primis». Questa famigliuola sbirresco-prefettizia, il Renzi la chiamerebbe romanticamente «il mio dream team per Roma».

Quando la politica si vuole sostituire alla politica, militarizzando se stessa in nome della legge e dell’ordine, rinuncia a vita propria, prestandosi a interpretazioni in un’aria da operetta, che vanno dal ridicolo al tragico andante. Ma soprattutto non riesce più a interrompere la spirale perversa che per esempio in questi giorni ha accompagnato il suicidio assistito di Ignazio Marino. Se per proteggersi, la politica si affida alla vera natura dei poliziotti, repressiva per definizione, credendo così di poter gestire la città per sottrazione culturale, seppure per un tempo limitato, abdica pericolosamente ai suoi compiti che sono quelli di mantenere lo «sguardo». E se un commissario è inevitabile, perché lo dice la legge, si dovrebbe cercare almeno di non sconfinare nella patologia aggiungendo commissario a commissario, intasando strade e uffici di pensieri torvi e pessimisti, minacciando sanzioni e pene corporali. Roma ha bisogno di aria, magari di qualche idea, e di sufficiente organizzazione perché strade e quartieri siano ben puliti e ben illuminati, intanto. Possibile che per questo orizzonte discretamente ristretto siano necessari, quasi obbligatori, sei o sette sub-commissari imposti dal presidente del Consiglio, con uso di altre decine e decine di «Panunzio, dove sta il dottor Panunzio?” , a loro volta sub-sub-sub commissari spiccia faccende? Su,  almeno cerchiamo di non essere patetici.

L’assessore Sabella, che vive la sua immagine col piglio del “risolvo problemi”, ci ha fatto sapere da dentro quel che il Viminale aveva scoperto da fuori. E cioè che c’è una buona parte di amministrazione corrotta, una parte incapace, e una parte che lavora come si deve. Due terzi di negatività, dunque. Ma soprattutto che la parte “corrotta” ha una sua forza bestiale, che viene da intrecci antichi con la politica, incrostazioni malavitose, tensione al tanto peggio tanto meglio. Avrebbe sostanzialmente il controllo sulla macchina. Un buon numero di questi signori è stato spostato ad altro incarico, ma Sabella sostiene che non è possibile licenziarli per “giusta causa”, perché in tribunale vincerebbero in bellezza facendosi immediatamente riassumere. Ecco, è su questo punto preciso che lo stato deve dirci da che parte vuole stare, perché non è più pensabile – se mai lo è stato per un tempo troppo lungo – che parti dello stato, sotto l’ombrello protettivo dei codici, possano riammettere nel circuito produttivo ciò che il circuito ha volontariamente espulso per indegnità. Al diavolo il garantismo, se di vero garantismo si tratta, avendone più di un dubbio.

Ma la macchina dello stato non è folle soltanto nella sua parte più distorsiva, come sarebbe logico immaginare. No. Anche la parte cosiddetta buona è in  grado di piegare i conflitti amministrativi secondo la sua legge, dettandola a chiunque voglia mettersi di traverso, imponendo le sue regole ferree, magari inappuntabili sotto il profilo formale, ma totalmente anacronistiche e in pienissimo conflitto di interessi. L’esempio più straordinario riguarda il potentissimo presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, sconfitto in una battaglia significativa e anche molto simbolica (riguardando Zingaretti) da un’oscura funzionaria regionale, tal dottoressa Giuditta Del Borrello.

Fatto sta che qualche tempo fa, l’apparentemente onnipotente Cantone decide, sempre in virtù della controversa legge Severino, che Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, dev’essere sospeso per tre mesi dalla firma sulle nomine, perché ne avrebbe “cannata” una pesante, piazzando all’Ipab di Gaeta (istituzione che raggruppa un certo numero di case di riposo regionali) un tal Agresti, il quale gestiva già due cliniche private in rapporti con la Regione Lazio. Cosa può pensare il semplice cittadino, sempre secondo lo strombazzamento planetario subito in questi mesi in cui gli hanno trapanato il cervello con l’idea che Raffaele Cantone è poco, ma davvero poco meno di Dio? Che quello che dice, decide e certifica Raffaele Cantone è legge di tutte le leggi e nessuno la può discutere. Magari. Qui siamo in Italia, ragazzi, e dunque il massimo che può fare Cantone in questo caso è proporre la sospensione di Zingaretti, perché poi un altro organismo decida in sede finale. E dove si trova questo organismo, trattandosi del numero uno della Regione Lazio? Ma all’interno della Regione stessa, ovvio!! Per cui la pratica passa sul tavolo della «responsabile anticorruzione della Regione», appunto la dottoressa Del Borrello, che alla fine della sua indagine decide che il «Capo» non ha colpe, perché è l’Agresti ad avergli presentato un curriculum «mendace» e non lui che aveva il dovere di accertarsene. Insomma, il mondo alla rovescia. Vogliamo dire che in questa vicenda si ravvisa un gigantesco conflitto di interessi? Vogliamo anche sottolineare che attraverso questa storia si comprende perfettamente quanto in realtà sia friabile e indistinto il raggio d’azione di un magistrato a cui il governo ha conferito un incarico di enorme importanza?

Roma se la devono riprendere i cittadini anche con le maniere forti, alzando la voce, urlando se necessario. Opponendosi a commissari e sub commissari, che pur di giustificare la loro (inutile) presenza vorrebbero farci credere che Roma è più o meno come Chicago anni ’20.

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