Partiti e politici
SPQR – IL SENATO E IL POPOLO DI ROMA
“…Innalzò il povero a un ruolo difficile da mantenere/poi lo lasciò cadere a piangere e a urlare…” dice Lucio Dalla nella prima canzone di cui scrive anche il testo. Era il ’77 (anno di snodo per la storia della sinistra in Italia) e forse da allora quel povero non ha mai smesso di urlare né di piangere, deluso, tradito da chi l’aveva, per un attimo, portato dentro la storia e la cittadinanza in un ruolo difficile ma che andava mantenuto. Quel pianto la sinistra non ha voluto ascoltarlo perché nell’urlo non diceva e non dice quello che lei vuole sentirsi dire. In virtù di quel paternalismo denunciato già nel ’65 in “Scrittori e popolo” da Asor Rosa (in cui poi la rimprovera anche di populismo), la sinistra sa da sola quello che il popolo vuole e quando questo non corrisponde è lui che tradisce, quando il popolo non è d’accordo col governo, è il popolo che va sciolto.
E chi sa intercettarne il consenso non merita l’onore dell’analisi, ma si esorcizza con epiteti: si parla alla pancia, si è populisti. Il popolo capirà e tornerà da me, sinistra di nobile schiatta, e se non torna significa che non mi meritava.
Il voto delle ultime amministrative ci dice che “poi da solo l’urlo diventò tamburo”.
Le prime mappe del voto che stanno uscendo (http://mapparoma.blogspot.it/), se messe insieme ai flussi per categorie sociali e anagrafiche, ci dicono cose molto simili in quasi tutte le principali città al voto: la sinistra tiene dentro mentre viene assediata da fuori.
Dentro e fuori da cosa?
La mappa di Roma suggerisce anche urbanisticamente questa polarità: dentro e fuori le mura aureliane, centro e periferia. Ma sbaglieremmo a restare solo su di un piano urbanistico-sociale, anche perché a Roma le periferie sono tante, diverse e diversificate al loro interno e il centro è sempre più difficile da considerare tale.
La dialettica dentro/fuori ci parla delle dinamiche sociali degli ultimi 25 anni per cui è dentro chi, anche minimamente, riesce a beneficiare dei cambiamenti portati dalla globalizzazione e dall’adesione all’Unione Europea e alla moneta unica: aumento degli scambi e dei flussi fisici e virtuali, valorizzazione delle differenze culturali, accelerazione delle transazioni economiche, internazionalizzazione dei mercati, dei saperi e delle informazioni, trasformazione multiculturale delle città, gentrificazione, espansione dei lavori creativi e di ITC, finanziarizzazione dell’economia. Insomma chi è nelle reti e nei flussi, o almeno ne può praticare l’accesso: l’accesso a questa nuova dimensione di cittadinanza globale senza Costituzione formale ma dalla costituzione materiale mutevole ed escludente.
Tutti gli altri sono fuori.
Ancora è dentro chi ha potuto e può ancora beneficiare del sistema di welfare e di accesso alla cittadinanza costruito dagli Stati-Nazione col compromesso socialdemocratico nato del dopoguerra e progressivamente, inesorabilmente e ingiustificatamente smantellato dalla fine degli anni ’80 (spesso col contributo attivo della sinistra) senza che un altro sistema universale di welfare e cittadinanza più moderno lo sostituisse, mettendo così nel fuori le ultime tre generazioni.
Infine è dentro chi profitta di rendite di posizione, di protezioni corporative e di lottizzazioni politiche, spesso impastate insieme.
Differenze ed esclusioni sociali, economiche, culturali, urbanistiche, si sovrappongono e si potenziano a vicenda disegnando un campo diverso della dialettica politica in cui dentro e fuori mettono in crisi e sembrano sostituire la tradizionale polarità destra/sinistra (o centrodestra/centrosinistra nella disgraziata neolingua della seconda repubblica).
Da quella mappa emerge una Roma con una sinistra-senatus arroccata nel dentro e con il populus (nuovi barbari o nuovi cristiani a seconda dei punti di vista e di come si è votato) che la assedia dal fuori.
Beninteso: questa è una tendenza locale, nazionale, europea e occidentale, è figlia di un ridisegno dello spazio-mondo (dei suoi modi e luoghi della produzione, della divisione della sua ricchezza, degli equilibri geostrategici) iniziato un quarto di secolo fa e ancora lontano dal trovare un suo punto di equilibrio. In tutto il mondo occidentale ci si confronta con queste dinamiche sociali e politiche e quasi ovunque, ma in Europa più che altrove, la sinistra fatica a trovare la sua soluzione.
E’ come se non trovasse un alfabeto buono a descrivere la nuova società, ma soprattutto per parlare con i soggetti di quella società nuova. Eppure la sinistra dovrebbe essere a suo agio davanti alle esclusioni, alle povertà, alle esigenze di giustizia sociale, di uguaglianza, di diritti. E’ la sua storia, anzi il senso stesso della sua esistenza storica. Invece quei bisogni non li riconosce se non in astratto, ma quando li declina davanti ai soggetti reali, questi non le corrispondono, non ne capiscono le parole, non hanno la sensazione che si parli proprio di loro (come loro), dei loro bisogni e del modo in cui li sentono.
E allora fioccano le frasi di rito piene di “connessioni sentimentali”, di “pancia del popolo” e di parole come storytelling o narrazione a seconda del versante scelto. Ma è un linguaggio esoterico.
Quel povero della canzone lasciato cadere dopo essere stato innalzato, per un attimo, al ruolo difficile della cittadinanza, ci parla di un percorso interrotto di emancipazione. E’ in quell’interruzione, a senso unico, del rapporto tra parte politica e parte sociale, che va ricercata la causa della situazione attuale.
Il popolo non esiste in natura, è una costruzione sociale e politica per fini politici e sociali. Nelle categorie classiche la destra lo costruisce al fine del nazionalismo, la sinistra per l’emancipazione.
Ma senza questa costruzione, senza una guida politica che gli indichi un senso sociale, una missione, un protagonismo storico, una dignità di organismo vivo e partecipante, senza un sistema di rappresentanza che gli dia la consapevolezza del suo ruolo nella società e che glielo faccia agire al meglio per sé, in un’ottica di uscita molecolare dalla subalternità, senza, in una parola, una politica autonoma e sua, quel popolo costruito si decostruisce e si disperde, torna pulviscolo sociale, moltitudine scomposta la cui principale caratteristica è quella di non sapere più lottare per un allargamento dei diritti ma solo per la concorrenza di quello che ne rimane: non più lotta alla povertà ma guerra tra poveri.
Così si arriva a quella mappa: senatus asserragliato e populus in rivolta che lo assedia.
Di solito se ne esce con un cesare, o peggio. Comunque con un qualcuno che erode il potere dell’aristocrazia senatoria concentrandolo su di sé in nome del popolo. Lo si è fatto decapitandola o rinchiudendola a Versailles, spostando la capitale a Costantinopoli con il Senato mantenuto a Roma o minacciando il “bivacco di manipoli”, ma sempre manipolando gli esclusi e la loro rabbia verso alcuni effettivi privilegi al fine di blindarne altri.
Ma nella storia ci sono state forze che hanno negato questa dialettica forzata tra elitismo e plebeismo, che non hanno contrapposto il populus al senatus, anzi gli hanno indicato quelle istituzioni come una cosa di cui appropriarsi, luoghi da riempire con le proprie aspirazioni storiche di riscatto e di giustizia, stanze della democrazia da allargare e universalizzare proprio per inverare il concetto stesso di democrazia. Una conquista dei luoghi della democrazia che ha camminato insieme alla scalata degli spazi della società, alla loro apertura e alla democratizzazione del sapere, così come hanno camminato insieme il miglioramento delle condizioni quotidiane e l’allargamento di un orizzonte di senso e ruolo sociale.
Se si interrompe questo processo politico le istituzioni si svuotano del valore reale della democrazia e la società diviene il luogo dei conflitti egoistici, sempre strumentalizzabili dall’alto.
Lo scenario che abbiamo davanti, a Roma, in Italia, in Europa e in Occidente, ci presente un nuovo ma eterno dilemma (eterno perché in termini generali presenta invarianti, nuovo perché richiede soluzioni inedite): come rimescolare il conflitto dentro/fuori con le categorie agibili della politica?
Come aprire nuovi spazi di partecipazione universale dentro i luoghi della democrazia? Li si apre disintermediando o trovando nuove e più partecipative mediazioni? Come aprire nuovi spazi di emancipazione sociale e culturale a valenza di cittandinanza universale? Che rapporto c’è tra cittadinanza universale e intelligenze ed energie sociali in autodeterminazione tendenziale? E’ possibile arrivare alla prima tramite nuove mediazioni tra le seconde?
Domande difficili su cui si basa la sfida politica del futuro, da affrontare con una consapevolezza: se c’è un fuori non c’è altra scelta che aprire!
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