Roma
Sara e la città morta che l’ha lasciata bruciare
Le cronache ci raccontano della morte atroce di Sara Di Pierantonio, arsa viva dal suo ex fidanzato Vincenzo Paduano, così ossessionato da lei da premeditare un delitto così efferato, così disumano. La sua fine violenta è già stata ascritta sulle testatine dei giornali come ennesimo caso di “femminicidio” e presto qualcuno fotograferà un altro paio di scarpette rosse per ricordarla, per farne un nuovo e passeggero simbolo ostentato in qualche flash mob.
Le stesse cronache di cui sopra parlano degli ultimi atti della vita di Sara, delle sue disperate richieste di aiuto. Di quelle macchine, almeno due, che non si sono fermate e che forse per paura, forse per indifferenza, l’hanno abbandonata al suo destino.
Fosse ancora in vita Fabrizio De André, immenso poeta che raccontava nelle sue canzoni le storie degli “ultimi”, magari narrerebbe di una maledetta notte di maggio, di una vittima, del suo carnefice e dei poveri disperati derelitti che preferirono schiacciare l’acceleratore e lasciarsi alle spalle quei destini che sarebbero poi divenuti inesorabilmente parte dei loro.
Nei giorni in cui Roma si avvicina stanca e decadente alle elezioni amministrative, mentre come è giusto che sia gli sfidanti si confrontano sui temi della campagna elettorale, dalle buche ai trasporti, dai rom da cacciare alle improbabili funivie urbane, i romani parlano a mezza bocca di quella povera ragazza ammazzata in quel modo lì, dell’ultimo messaggio scritto alla madre, di quel mostro che dovrà marcire in galera per tutta la vita.
Ma Sara si sarebbe forse potuta salvare, se solo Roma non fosse stata un cadavere inerte già prima di lei, se solo la città non fosse stata già uccisa da tempo dal suo degrado. Un degrado non è solo quello delle buche sulle strade o dei cassonetti sommersi dai rifiuti, ma è il degrado più intimo e profondo che troppo spesso si manifesta in chi la città la abita, plasmandola a sua immagine e somiglianza.
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