Cinema

Roma, viaggio nei piccoli cinema che (non) chiudono

15 Ottobre 2017

Uno chiude, uno riapre, in qualche modo. Le notizie degli ultimi giorni sui cinema romani si possono sintetizzare così. Il Fiamma, storico cinema della capitale, vicino piazza della Repubblica, adesso multisala ma centrale e frequentato da un pubblico di un certo tipo, ha chiuso, almeno per ora: qui debuttò, tra gli altri, La Dolce Vita, e qui si potevano ancora vedere (rarità a Roma) film in lingua originale. L’Alcazar, invece, a Trastevere, è adesso un club-bistrot, ma che fa vedere anche qualche film. Meglio di un supermercato, o di appartamenti, o di una boutique di lusso, sorte toccata a diversi cinema chiusi ultimamente.

Eppure, a Roma e non, i cinema chiudono. Le sale aumentano. Gli schermi sono ovunque. I cinema che chiudono sono soprattutto le monosale, quelli con una sala sola, quelli romantici e miticizzati che hanno fatto la storia dello spettacolo in Italia, ma che non reggono più le leggi del mercato e un pubblico in diminuzione. Eppure ci sono più sale di una volta, grazie o per colpa delle multisale. Eppure gli schermi sono protagonisti delle nostre vite come mai prima, tablet, smartphone, schermi alla stazione, nei negozi, ovunque, anche schermi temporanei dove vedere film, cinema improvvisati e non più legati alla sala. L’esperienza del vedere un film si è insomma radicalmente trasformata negli ultimi anni.

Quanto costa mantenere un cinema?

Negli ultimi trenta anni a Roma hanno chiuso più o meno 80 cinema. Monosale, appunto, ma anche piccole multisale, come il Tristar o il Metropolitan di via del Corso. Forse non ci sarebbe da stupirsi, sempre meno gente va al cinema, ci sono i DVD, la televisione, e soprattutto internet. Mantenere un cinema costa, tanto: ci sono ancora costi di manutenzione, elettricità, personale, il noleggio dei film, l’affitto della sala – 50.000 euro l’anno solo per quest’ultima voce, nel caso per esempio dell’Alcazar. Raccontava a Gli Stati Generali qualche tempo fa Gino Zagari, gestore del cinema Caravaggio, una sala storica romana recentemente riaperta, per mantenere un cinema ci vogliono non meno di 100.000 euro all’anno: “Ci sono molte variabili. L’affitto, che può costare 2.500, 5.000 o anche 7.500 euro al mese, il personale, la ristrutturazione, per cui servono non meno di 200.000 e non più di 400.000, e che va ammortizzata un pezzo alla volta. Pensiamo come se fosse una casa: quando si compra una casa, se l’unica cosa che va cambiata è il riscaldamento avremo delle spese, se va rifatto tutto ne avremo delle altre. In un cinema, se funziona tutto e va sistemato solo l’impianto di proiezione, si possono spendere anche solo tra i 30.000 e 60.000 euro (con il 30% che, per la digitalizzazione, può essere ripreso con incentivi)”.

Sempre più sale, sempre meno spettatori

Ma quanti cinema ci sono a Roma? Secondo dati di un paio di anni fa, nella regione Lazio ci sono 104 cinema e 489 schermi, di cui circa tre quarti dovrebbero essere quelli nella capitale (si vedano i dati qui e qui che hanno probabilmente subito qualche variazione). In tutta Italia ci sono oltre mille cinema e 3.265 sale (vale la cautela di cui sopra). Ha avuto gioco facile l’Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici) nel segnalare come non sia un’ecatombe, non è vero che ci sono meno sale di una volta: “se dal 2000 al 2014 hanno chiuso 1.149 schermi in 946 complessi – fa  notare Luigi Cuciniello, presidente dell’ente – nello stesso periodo ne sono stati aperti 1.664 in 195 complessi, con un saldo positivo di 515 schermi”. Si è sostanzialmente avverata la previsione dell’allora consigliere comunale di Roma Nicola Galloro che nel 1997 dichiarava: “A Roma nel Duemila potrebbero funzionare 300 schermi”. A Roma, in quel 1997, di schermi ce ne erano “solo” 120. Tutto bene quindi? Non proprio. Giovanni Caudo, ex assessore all’urbanistica del comune di Roma, sintetizza così “Bisogna partire però da un dato: in Italia 30 anni fa si vendevano 270 milioni di biglietti, oggi siamo a 100; nel frattempo gli schermi sono diventati 4 volte tanto. Quindi, c’è quasi un terzo degli spettatori e 4 volte gli schermi che c’erano 30 anni fa. Sono gli stessi operatori a segnalare che non c’è più mercato per così tante sale cinematografiche commerciali” . E poi c’è una riflessione da fare sulla perdita di luoghi del cinema, come nota Roberto Roversi, Presidente nazionale Ucca (il settore cinema dell’Arci), quelle monosale che sono le principali vittime della crisi di spettatori, e come conseguenza “intere aree del paese sono ‘scoperte’, su altre insistono strutture che programmano solo mainstream” (qui a pagina 9).

Roma città del cinema?

I cinema chiudono in tutta Italia, ma a Roma tutto assume un significato più marcato, e negli ultimi tempi si sono moltiplicate le iniziative sul tema, da un convegno dell’aprile di quest’anno, uno del febbraio dello scorso anno dal roboante titolo “Il cinema italiano che ama le sue sale e le difende”, mentre l’anno prima i tre assessori competenti (Cultura, Commercio e Urbanistica) hanno presentato una Memoria sui cinema per cercare di capire cosa fare con le 42 sale chiuse (tante quelle censite allora, probabilmente sono molte di più). Il tardo inverno-inizio primavera del cinema sempre nel 2015 ha visto una serie di interventi di sensibilizzazione sulla questione. Sembra interessare meno, ma a Roma scompaiono anche cineclub e simili (per citarne alcuni, Filmstudio, Politecnico Fandango, Colosseo) che per tanti anni hanno formato un pubblico e messo in circolo opere non mainstream, mentre alcuni resistono ma sono sempre più marginali. L’eccezione è il Kino al Pigneto, nato grazie a 54 professionisti del cinema che hanno investito circa 1.000€ a testa per rilevare una vecchia sala d’essai. Sempre al Pigneto c’è il più grande scandalo urbanistico-cinematografico romano di questi ultimi anni: quel Nuovo Cinema Aquila di proprietà del Comune di Roma, un gioiello architettonico, riaperto in pompa magna come multisala nel 2008, poi richiuso nel 2015, con l’ombra di Mafia Capitale e di gestioni e problematiche poco trasparenti, fino ad essere riaperto “dal basso” e di nuovo al centro di polemiche.

I cinema che riaprono

Ci sono poi, tra le poche soluzioni concrete, le occupazioni dei cinema. Se molte di queste (come Ricomincio dal Faro, Astra, o il Volturno) fanno o facevano soprattutto altro oltre a far vedere film, un posto come il Cinema America Occupato – siamo sempre a Trastevere – continuava soprattutto a fare programmazione cinematografica, all’interno di un cinema che è anche un’opera d’arte, tutelato dalla Soprintendenza : progettato negli anni ‘50 da Angelo di Castro (con mosaici di Pietro Cascella e Anna Maria Cesarini Sforza) è stato protagonista negli ultimi anni di una storia esemplare, tra ricorsi al TAR e solidarietà istituzionali, tra gli altri del presidente della Regione Lazio Zingaretti e del Ministro dei Beni Culturali Franceschini. Un’esperienza questa sempre più nota, anche grazie alle proiezione estive nella vicina Piazza San Cosimato, dapprima anche queste “militanti” e ora sempre più sponsorizzate e istituzionalizzazione. Notorietà che non ha sbloccato però la situazione del cinema, che rimane inesorabilmente chiuso, anche se la Sala Troisi è stato assegnata con regolare bando al gruppo del Cinema America. È chiaro che non sempre queste esperienze di recupero siano supportate a tutti i livelli. Ad esempio vale la pena cercarsi una nota dell’Anec dello scorso anno dove si sostiene: “L’Anec apprezza ogni iniziativa tendente alla salvaguardia della diversità delle sale cinematografiche, tuttavia invita a considerare l’indispensabilità di una sana redditività gestionale e della costante innovazione tecnologica ai fini del ripristino delle strutture inattive, per il quale è necessario il sostengo degli Enti di governo del territorio, anche in termini di incentivi fiscali”. Rimane il grande, in termini quantitativi e qualitativi, lavoro di queste esperienze alternative che, magari in forma solo parzialmente legale, hanno ridato vita a cinema come luoghi e all’esperienza del cinema, conquistandosi – è il caso del Cinema America – anche notorietà internazionale e simpatie da più parti.

Ogni tanto i cinema riaprono anche per vie più ortodosse, come nel caso del cinema Caravaggio, nel quartiere “bene” dei Parioli, “un sala storica, che era chiusa da tre anni. L’abbiamo completamente ristrutturata – racconta ancora Gino Zagari a Gli Stati Generali – riducendo la capienza per migliorare standard qualitativi, come poltrone comode e più distanza tra le poltrone. Pensiamo a un cinema salotto”. Un tipo di cinema che, segnala Roberto Silvestri, giornalista e critico di cinema, è di casa a “Los Angeles, dove la trasformazione del parco cinema urbano passa per la gioiellizzazione delle sale. È un modello alternativo ai multiplex che coinvolge l’interno patrimonio sale delle città e dei piccoli centri. Insomma: comodamente al cinema invece che comodamente sulla vostra poltrona perché la poltrona del cinema è più lussuosa della vostra”.

Quando un cinema chiude…

Ci sarebbero poi anche strategie per non farli chiudere, o non permettere speculazioni. In particolare una quasi leggendaria delibera comunale del 1995 , dal nome fortunato (Nuovi Cinema Paradiso) e dalle alterne fortune: quando un cinema chiude e si cerca di riconvertirlo, solo una parte può essere utilizzata per attività non culturali. Nel tempo delle piccole modifiche hanno progressivamente diminuito la superficie obbligatoria ma rimane il fatto che, come notava nel 2010 l’allora assessore alla cultura Umberto Croppi, si tratta almeno di un deterrente. Deterrente che non sempre funziona, se, come fa notare un gruppo di registi che ha scritto al Comune, la delibera non ha impedito “scempi come quello del cinema ‘Etoile’ [diventato uno store di Louis Vuitton, ndr], e che porterà i proprietari delle sale a sperare in norme ancora meno restrittive”. Operazioni senz’altro di dubbio interesse: Edward Bowen, che insegna all’Università del Kansas negli Usa e ha scritto una tesi di dottorato intitolata Nuovi Cinema Paradiso?: Closure, Urban Renewal, and Grassroots Movements in Rome, si chiede “se davvero ristrutturare un cinema come banca o negozio di lusso, tenendo solo la facciata, sia restituire un bene alla comunità”.

Che fare?

Che fare allora? Da una parte bisognerebbe cercare di evitare il rischio nostalgia. Una nostalgia che pervade purtroppo diversi degli eventi sopracitati e del discorso delle associazioni di categoria. Per Peter Sarram (professore alla John Cabot University di Roma, autore di saggi sull’Estate Romana e sull’esperienza del cinema America) “recuperare le sale tanto per recuperarle non ha molto senso, si rischia davvero un’operazione nostalgia fine a sé stessa, svuotata di valenza sociale e politica. Bisogna pensare non soltanto a soluzioni più creative per quanto riguarda la programmazione ma anche a usi più creativi degli stessi spazi”. Sicuramente potrebbero intervenire le istituzioni, visto che come segnala Zagari del Caravaggio “mancano quasi del tutto le agevolazioni, che invece sono molto forti per la produzione dei film, dove si arriva anche a coprire il 40% delle spese totali”. Il Comune di Roma, in particolare, potrebbe avere un ruolo importante: “Bisognerebbe partire dalle sale di proprietà del Comune di Roma – dice lo studioso Bowen a Gli Stati Generali – quante sono e come si potrebbero utilizzare? Oltre a rigenerare la vita sociale e culturale nei quartieri, ci potrebbe essere più attenzione anche per il turismo. Il Comune potrebbe ristrutturare uno o due cinema per farci vedere i capolavori della storia del cinema italiano e mondiale, e anche i gioielli del cinema indipendente contemporaneo. Quest’idea, già proposta e sperimentata da vari gruppi con tanto entusiasmo e cura, potrebbe essere vincente se gestita e appoggiata bene”. E sarebbe opportuno fare davvero sistema, “anche chi produce film – continua Zagari – dovrebbe interessarsi di più ai canali di vendita: se produco carne sono interessato a che ci siano delle macellerie per venderla, perché questo non avviene col cinema?”.

Partire insomma dalle idee di gruppi e associazioni, farle vivere con l’appoggio e il sostegno vero (non di facciata e meramente opportunistico) delle istituzioni, provando a sostenere modelli di business sostenibili, cercando infine di fare sistema tra tutti gli interessati e le parti in gioco. Non sembrerebbe così complicato.

 

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