Roma
“Roma non fa la stupida”: quale Teatro Nazionale per la Capitale?
Che busta vuole? La 1, la 2 o la 3? È tempo di apertura buste al Teatro di Roma.
Sono arrivate le famose “manifestazioni di interesse”, ossia progetti di gestione, non si sa quanto articolati e approfonditi, del teatro capitolino. Da quando Antonio Calbi si è trasferito a Siracusa, all’Istituto del Dramma Antico come sovrintendente – ha già iniziato a lavorare alacremente, dicono i ben informati: attendiamo di capire le prossime proposte del Teatro greco – il Teatro Nazionale sembra vivere in un clima febbrile, sull’orlo di una crisi di nervi. Tengono gli uffici, ormai super rodati; tiene il presidente Emanuele Bevilacqua, che si è assunto la carica, pro-tempore, di direttore; e tiene il Cda, che sarà chiamato a esprimersi sui contenuti delle “buste”. Quanti progetti sono arrivati? Di che respiro? Chi vi scrive non lo sa.
Ma è bello: sarà il regalo di Natale, una vera sorpresa.
La città, intanto, non pare accorgersi di quanto accade a Largo Argentina, presa com’è dai soliti mille problemi (scivola all’85esimo posto per qualità della vita secondo una indagine ItaliaOggi-Università La Sapienza) ma certo sia in Comune che nella Regione guidata da Nicola Zingaretti, si suppone che abbiano la questione molto a cuore.
Sicuramente Luca Bergamo, vicesindaco capitolino e assessore alla Cultura, sa che la scelta del nuovo direttore può essere determinante.
Chi sarà? Un “manager”, secondo il profilo richiesto? Un buon amministratore, un buon “sovrintendente”? Qualcuno insomma che faccia quadrare i conti, che rispetti gli algoritmi, che faccia botteghino, oppure un buon coordinatore che sappia anche dar impulso culturale alla struttura? E chi saranno i “consulenti” del manager? Girano nomi, come è naturale, ma al di là del totonomine sarebbe bello interrogarsi su altro.
La questione sul tavolo, infatti, non è semplicemente amministrativa (certo, una oculata, saggia amministrazione si impone: non è più tempo di spaccar bilanci), ma abbraccia forse temi di cultura teatrale e, in senso più ampio, di politica e urbanistica.
Che ci fa un teatro, un Teatro Nazionale, in una città come Roma? Che rapporti intesse con le periferie – tema peraltro caro a questo governo e a questa giunta? Come si confronta con le nuove cittadinanze, con la partecipazione e la formazione del pubblico?A che spettatori parla? In definitiva: che cultura teatrale proporrà nell’immediato futuro?
Vabbè, tutte domande che sappiamo, ma tutte risposte che dobbiamo sempre di nuovo trovare.
Meritoriamente, La Repubblica, grazie allo scrittore Paolo di Paolo ha aperto nell’edizione romana, un dibattito coinvolgendo artisti e operatori, provando a lanciare un dibattito che però, mi sembra purtroppo di costatare, non ha molta eco in altre testate né altrove, se non tra gli addetti ai lavori. Ecco, forse il problema è quello: non importa poi molto.
Ed è un peccato. O forse un’opportunità: perché proprio qui sta il nodo, ossia nel ricostruire il necessario dialogo con fasce sociali (ed economiche) lontane dal teatro; nel riconquistare quel che resta della sparuta e sparita borghesia romana; nel dialogare con tutti gli artisti – e sono tanti, per provenienza, stili, modi – di questa città. Teatro di ricerca, teatro di testo, teatro di tradizione, performance, teatro danza: quante anime vivono all’ombra della parola “teatro”?
Saprà il nuovo, o la nuova, manager ascoltare questo brulicante territorio?
E ancora: questo Teatro Nazionale, questo teatro di Roma Capitale, saprà finalmente riconquistare un posto, una “normalità” da grande città europea? Sarà possibile, anche qui, vedere serenamente quanto si propone a Parigi o Berlino o a Singapore, in un clima da “stagione” e non solo nella frenesia breve e felice di un festival?
E la stagione dovrà essere ancora un inarrestabile frullatore, dove tutto passa e si consuma, oppure si può sperare anche che la famosa “tenitura” diventi anche progettuale, produttiva, frutto di un disegno culturale che sappia coinvolgere, far partecipare, la città in una prospettiva ampia? E cosa sarà del Teatro India? Come far vivere, bene, gli importantissimi teatri “di cintura”?
Staremo a vedere.
Antonio Calbi, il direttore uscente, ha fortemente connotato questi ultimi anni: ha avuto il merito indiscusso di tenere in moto una macchina che rischiava di incepparsi, e l’ha lanciata a velocità frenetica, tra mille progetti e altrettante proposte. Ora quella massa di iniziative dovrebbe non solo andare a regime, ma aprirsi alle nuove esigenze, alle istanze, alle possibilità di questo tempo in continuo mutamento.
Insomma, il cambio della guardia, potrebbe diventare una opportunità, una ipotesi, un tentativo concreto di ripensare la funzione culturale, urbanistica, socioeconomica della Forma-Teatro e dell’Edificio-Teatro. Proprio da Roma, infatti, con le sue specificità e criticità, potrebbe venire una spinta a ragionare sulla natura, e sulla missione, sul mandato di “Teatro Nazionale”, a qualche anno dalla riforma ministeriale che li ha istituiti. Potremmo ripartire da qui per domandarci a che servono, che fanno, che incarico svolgono, che servizi erogano i teatri, qualsiasi teatro, elaborando anche un modello diverso rispetto ad altre esperienze, anche di successo, come quelle di Milano, Torino, Modena o altre ancora.
Qui in città, ad esempio, proprio per le sue caratteristiche, potrebbe essere bello tornare a ragionare sulla ipotesi di “bene comune” (oddio che cosa ho detto! Eppure, vi ricordate quanto se ne parlò con il Teatro Valle Occupato. E poi che ne è stato?).
Viene da chiedersi se il vecchio adagio del “teatro d’arte per tutti” che fu alla base della nascita del Piccolo di Milano, sia ancora valido. Se, insomma, una istituzione teatrale debba farsi carico di diffondere la cultura orizzontalmente e verticalmente, in tutto il territorio e a tutti i livelli. Se debba porsi, allora, come modello di mediazione sociale, come nesso, ponte tra fasce sociali, tra comunità diverse, tra tradizioni non solo teatrali diverse, attento ai temi scottanti dell’immigrazione e del teatro sociale d’arte.
Infine, ci piacerebbe pensare di aver a che fare, in futuro, con un teatro molteplice, aperto, trasversale, capace di raccogliere e far maturare i fermenti diversi che spuntano in questa città e che faticano a crescere oppure sistematicamente sono costretti a emigrare per trovare sostegni produttivi e incoraggiamenti al confronto con il pubblico.
Ma ci accontenteremmo anche di avere degli spazi vivibili, accessibili, magari con dei bar che funzionino (e che non siano più cari di quelli appena girato l’angolo), con qualche piccola libreria, con un wifi, con orari di apertura più ariosi, che siano frequentabili anche oltre l’ora della funzione…
Detto questo, siamo fiduciosi. Con tante cose da fare, di certo non avremo passi indietro: sarebbe ridicolo pensare a direttori di facciata, patetico immaginarsi il “grande nome” usato come testimonial; sarebbe un peccato trovarsi qualcuno che sappia “solo” far di conto, ancorché bene. qui tocca chiederci che teatro – e che città – lasceremo ai nostri figli; cosa ci sarà da qui a dieci, quindici anni.
Ne siamo certi: avremo un direttore (o una direttrice?) che sicuramente darà impulso alla cultura teatrale cittadina e italiana. Aspettiamo ancora un po’, e capiremo. Altrimenti, sarà l’ennesima occasione sprecata.
(nell’immagine di copertina: il Teatro India)
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