Partiti e politici

Roma: il Diritto alla Città

5 Novembre 2015

La vittoria di Ignazio Marino, prima alle primarie e poi a sindaco di Roma, ha decretato la morte politica del fenomeno che chiamiamo “mafia capitale”. La sua destituzione certifica l’incapacità del centrosinistra romano, per come l’abbiamo conosciuto finora (nella sua intima costituency, direbbero i politologi) di affrontare il compito del governo di Roma.

Questo non vuol dire che mafia capitale è sconfitta per sempre né che il centrosinistra uscirà necessariamente dalla sua impotente costituency, al contrario i fenomeni in crisi possono riproporsi in forma ancora più virulenta e critica, e proprio su questo rischio dovrà porsi l’attenzione della società civile organizzata e dei ceti dirigenti diffusi della città.

Per mafia capitale, vale ribadirlo viste le confusioni giornalistiche, intendiamo quel fenomeno di simbiosi tra storica criminalità organizzata neofascista (figlia della stagione delle stragi e legata a doppio filo con settori dei servizi segreti e delle mafie “classiche”) e pezzi della consiliatura Alemanno che sussumono dentro il loro blocco politico-affaristico un pezzo rilevante del clientelismo elettorale del centrosinistra.

In sintesi si garantisce la continuità di appalti, anzi un incremento sensibile, ad alcune cooperative storiche in cambio di una loro messa a servizio nel sodalizio criminale (che vanta affari ben più sordidi e remunerativi) sicuri che queste, in caso di sconfitta di Alemanno, potessero ricambiare il favore diventando garanti degli interessi ormai saldati del sodalizio criminale anche nei confronti di un eventuale consiliatura di centrosinistra.

Questo meccanismo con Marino e la sua giunta si blocca grazie all’estraneità a quel sodalizio di interessi. Come si è visto mafia capitale trova comunque interlocutori e garanti (nella politica e nell’amministrazione), ma non è più un rapporto organico. Ci sono quindi le condizioni politiche perché l’azione della magistratura possa dispiegarsi con la massima efficacia.

Da questo momento si passa dall’antimafia inconsapevole all’antimafia consapevole, il partito di maggioranza a Roma, risultato implicato in diversi aspetti, viene commissariato col proposito di trasformarsi nel partito di antimafia capitale e il sindaco cavalca questa battaglia intestandosene diversi meriti.

Fino ad allora in effetti la consiliatura Marino si era caratterizzata per uno scontro continuo coi cosiddetti poteri forti: la fine del monopolio sui rifiuti, il blocco del consumo di suolo dell’agro romano, le battaglie su commercio e cartelloni sono risultati storici per Roma (merito, va detto, di tre assessori bravi e coraggiosi), con i quali si fa molti nemici tra i quali anche gli editori dei principali giornali romani che da allora cercano di demolirne l’immagine (la storia della panda rossa rimarrà negli annali delle più basse pagine di giornalismo) aiutati anche da alcune incapacità amministrative e comunicative evidenti.

Ma si aprono di continuo nuovi fronti: dipendenti pubblici, vigili urbani, sindacati, cooperative sociali, atac, ama…In questi conflitti si vede una parte corporativa, consociativa e conservativa all’opera, perfino nel boicottaggio continuo dei servizi pubblici, ma c’è anche il principale limite del sindaco: il disinteresse a stringere alleanze sociali, la non disponibilità all’ascolto, il non capire che gli avversari vanno divisi e non uniti, l’incapacità a distinguere i consigli e i consiglieri interessati da quelli interessanti.

In questa fase il partito di maggioranza sostiene e cerca di rafforzare l’operato del sindaco, mentre gli alleati recalcitrano e criticano, poi le parti si invertiranno all’ultimo minuto.

Cosa sia successo in quest’ultimo minuto sarà materia di analisi politica e forse storica (l’impressione è che l’intervista volante del Papa giubilando abbia avuto un peso, e le odierne vicende vaticane un sinistro parallelo…) ma certo va considerata la natura  bifronte del sindaco: la sua inaffidabilità ha causato sì il corto circuito degli interessi di mafia capitale e di molte altre rendite di posizione, ma ha anche impedito l’elaborazione di un progetto condiviso e sostenibile; il suo senso calvinista della legalità ha inceppato i meccanismi malati dell’amministrazione ma ha anche messo in difficoltà gli spazi sociali e culturali e la cooperazione sana (Teatro Valle e Cinema America per dire i più noti, ma sono molti), la sua etica liberal ha permesso la giornata delle unioni civili ma poi si è infranta sulle piccole bugie, omissioni, gaffes, incomprensioni varie. In un senso più generale Marino appare come una contraddizione continua, bifronte appunto, anche nella definizione politica: è un ircocervo tra i due prodotti più spuri della seconda repubblica: grillino nel saltare e ripudiare i riti della mediazione politica e tecnico, alla Monti, nella freddezza e nella distanza delle sue decisioni dagli umori e dai bisogni popolari.

Questa la sua cifra, dei suoi meriti e dei suoi limiti.

Ma questa fine certifica anche, come detto, l’inadeguatezza del centrosinistra degli ultimi anni, consociativo con Alemanno, discontinuo e diviso con Marino, senza progetto, senza identità, senza organizzazione. Più spesso una multiproprietà per correnti elettorali legate a diversi interessi e pertanto incapaci di fare sintesi e di elaborare progetti generali.

Non è tutto così naturalmente: nuovi presidenti di municipio, circoli di base, assessori coraggiosi e innovativi, positive pratiche locali di tutti i partiti della coalizione, consiglieri appassionati…tutto questo c’è ed è evidente (spesso al femminile, fa bene ricordarlo), ma viene sprecato dentro quella costituency oramai insostenibile e giunta al suo esaurimento storico.

 

Se la società politica piange, quella civile non ride

E le due cose sono naturalmente legate, espressione l’una dell’altra, come vogliono i classici.

Se c’è da rispondere a Cantone che, purtroppo, capitali morali in Italia non se ne vedono, è evidente comunque come la società civile romana sia ormai molto più slabbrata, esausta, divisa, conflittuale, apatica, anomica, atomizzata di quella milanese. Non solo non si riconosce più in un progetto, ma non si sente parte di una stessa città.

Comunità contrapposte senza direzioni unitarie, disorientate, spaventate.

La disuguaglianza ridiventa la cifra del vivere cittadino, disuguaglianze classiche (un abitante di Prati ha reddito doppio rispetto ad uno di Tor Bella Monaca) vengono affiancate da disuguaglianze nuove dell’accesso ineguale. Una minoranza di cittadini ha accesso ai servizi della città: trasporti efficienti, cultura, formazione, ambiente, decoro, sicurezza, cura, gli altri se ne sentono esclusi, perfino spazialmente separati. I primi si richiudono a difesa di quell’accesso che sentono come privilegio, i secondi si richiudono nell’unico meccanismo di protezione a disposizione: il proprio privato, la famiglia, l’interesse particulare, legale o illegale che sia.

Il risultato è una società che degrada in clan, di cui quello Casamonica è metonimia folkloristica, di cui quello dei camion-bar è esempio vincente ma da cui anche i buoni salotti colti e di sinistra non sono esenti.

Ma le cose sono sempre contraddittorie, infatti se la società civile romana si presenta ormai così, è anche vero che questa ha elementi di brillantezza, di creatività e intelligenza sociale, di capacità di resistenza e di innovazione superiori a molte altre città. Le attività culturali disseminate in micro e autoproduzioni possono vantare un livello qualitativo più alto di quelle “ufficiali” (più paludate, conformiste e meno europee), l’autoimprenditoria basata sullo sviluppo locale sostenibile e sull’innovazione è tra le più vivaci in Europa, le pratiche locali di solidarietà vivono una nuova stagione di creatività, l’autodeterminazione dei bisogni entra in nuovi ambiti delle vite di ciascuno, specie nei settori femminili e dell’infanzia.

Queste energie sociali sono però inserite in un contesto socialmente energivoro: Roma le disperde, le separa, le spreca.

Eppure questa città ha un numero incredibile di università italiane e straniere, laiche e religiose, piccole e grandi, un’infinità di istituzioni culturali, di enti internazionali (Fao, Acnur…), ambasciate, consolati e relative comunità di stranieri ormai stabili e produttivi sul nostro territorio, associazioni generaliste e specifiche, case editrici piccole e dinamiche…

Tutto questo invece di essere ricchezza per Roma è intralcio, non è dinamo ma entropia, si traduce solo in più traffico e bolle immobiliari.

In questa incapacità di utilizzare le proprie ricchezze per il bene comune, le mafie prosperano, in questo ripiegamento nel particulare, le mafie si infiltrano, in questa mancanza di un progetto generale condiviso, le mafie dirigono.

 

 Diritto alla città

Abbiamo bisogno di unire gli sforzi in una grande battaglia per il diritto alla città: il diritto a viverla e a modificarla utilizzandone tutte le potenzialità.

La prima cosa da fare è connettere il capitale immobile comunale col capitale sociale: abbandonare l’idea pigra (e criminogena) di cartolarizzare per fare piccola cassa e mettere invece gli spazi comunali a disposizione della creatività e dell’impresa sociale. Solo così il comunale diventa pubblico. Solo così lo sviluppo diventa per tutti. Connettendo questi due capitali Roma può diventare la capitale europea dell’economia collaborativa: coworking, fablab, factory plurivocazionali e integrati, dalle tecnologie alla cultura, dal sociale ai servizi avanzati.

Per permettere questo c’è la seconda cosa da fare: un’immensa semplificazione burocratica. L’amministrazione deve diventare totalmente trasparente eliminando poteri di veto e materie concorrenti e rafforzando i servizi di monitoraggio e valutazione e la capacità di programmazione condivisa e partecipata. Rovesciare la sua subcultura da ostativa a cultura problem solving.

Ogni nuova regola che non elimini ma si aggiunga ad altre irriga il brodo di coltura della corruzione, ogni nuovo vincolo o materia concorrente da un’arma in più ai concussori. La certezza del diritto del cittadino a Roma è un’utopia che deve diventare al più presto normalità. La proposta di Roma Città-Regione con nuove municipalità fatta da Causi e Tocci è il viatico perfetto per una necessaria rivoluzione amministrativa.

La rigenerazione urbana che serve a Roma non è solo materia da urbanisti e architetti, non è ristrutturazione edilizia o lavori pubblici: è un insieme integrato di recupero urbanistico, politiche ambientali, animazioni culturali, servizi sociali universali, sviluppo locale sostenibile, pratiche di cittadinanza e partecipazione informata alle decisioni.

Restando sul paradosso, il centro devono essere le periferie, è lì che le disuguaglianze legate all’accesso nascono, è li che vanno capovolte. Le periferie di Roma devono diventare i territori delle possibilità e delle inclusioni: vanno riempite di porte di accesso al welfare universale e alla promozione sociale e culturale fatta di servizi, formazione, incubatori di impresa, economie solidali, produzioni culturali.

Una città con un’economia vitale sana, sostenibile e solidale, con un’amministrazione trasparente con certezza delle regole e del diritto, con una società meno diseguale che non abbandona nessuno e che sostiene con welfare universale e innovativo, è anche una città con più anticorpi contro le mafie, è anche una città con una società civile più coesa, consapevole, partecipante, onesta, solidale.

Occore vigilare e rilanciare: vigilare per non tornare indietro (e molti sono gli interessi che non aspettano altro) su quanto di buono fatto in questi due anni (urbanistica, rifiuti, commercio, legalità) e rilanciare su sviluppo locale sostenibile, cultura, sociale e trasporti.

Roma entra a giorni in un nuovo anno giubilare. Le autorità religiose parleranno di misericordia, fratellanza, solidarietà, quelle civili di buche, asfalto e metropolitane.

A noi tutti l’onere di alzare il livello della discussione del cosa fare a/per/di Roma.

 

 

 

Andrea Masala

Arci Roma

 

 

 

 

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