Roma

“Roma e i suoi mali”: le risposte di Goffredo Bettini e qualche riflessione

21 Ottobre 2015

Nei giorni scorsi avevo chiesto un parere a Goffredo Bettini – persona di cui ho profonda stima intellettuale – sulla situazione di Roma e del Pd romano dopo la “cacciata” del sindaco Ignazio Marino. Con l’occasione gli avevo mandato il mio ultimo articolo pubblicato su “Gli Stati Generali”, dove ho cercato di porre l’attenzione su alcuni argomenti per me utili a comprendere il palese fallimento di una stagione politica.

Vale la pena di pubblicare integralmente la sua risposta, perché la trovo molto illuminante e a mio avviso scava nelle cause più profonde di una crisi politica e forse anche identitaria che attraversa ormai da anni la sinistra romana. Con l’occasione aggiungerò qualche ulteriore riflessione scaturita da essa.

 

“Caro Fabio,

il tuo intervento ricostruisce i fatti con spirito di verità, intelligenza e, cosa che non guasta, con una scrittura chiara ed efficace. Siccome me lo chiedi, svolgo solo qualche considerazione.

Dopo il 2008 nessuno a Roma ha difeso fino in fondo l’esperienza che abbiamo condotto nella città con due bravi Sindaci come Rutelli e Veltroni. Per carità: ci sono stati anche errori e ritardi ma è indiscutibile che la città per più di 15 anni è cresciuta, è stata viva culturalmente, entrando in sintonia con l’amministrazione del centrosinistra. Sono state ragioni politiche interne, purtroppo, a sollecitare una rimozione o, peggio, un’aspra critica postuma, che poi ha avuto come imputati principali Morassut, per le competenze urbanistiche, Veltroni e il sottoscritto. Se il “Modello Roma” fosse stato un totale fallimento, Veltroni non sarebbe andato via con consensi che nei sondaggi si attestavano oltre il 60% e non avremmo ottenuto il 41% dei voti come Pd a Roma nelle politiche del 2008. Ho detto più volte che noi abbiamo perso contro Alemanno perché dopo una fase forte di governo, dovevamo saper innovare e comprendere che di fronte a noi si aprivano sfide inedite.

Abbiamo peccato di presunzione e di un eccesso di sicurezza. La candidatura di Rutelli, straordinario riformatore della città, fu intesa dall’elettorato così: una riproposizione statica di noi stessi, al di là del suo glorioso passato di Sindaco, del suo coraggio nell’affrontare la candidatura che non ha certamente cercato e della generosità con la quale si è speso. Negli anni di Alemanno la.descrizione che fai tu del Pd è esattamente quella che ho criticato in tante occasioni; segnalando, primo tra tutti, la degenerazione che si stava manifestando. I fatti hanno dato ragione alle più pessimistiche previsioni. La candidatura di Marino si inserisce in questo quadro.

La sostenni per 2 ragioni fondamentali:
1) Per marcare una netta discontinuità con un certo nostro consociativismo in Campidoglio che molti danni ha fatto.
2) Perché sembrava a me avesse le maggiori chance di vittoria, rispetto alle altre candidature rimaste in campo. Ho spiegato in una lettera al Foglio come ho vissuto i mesi successivi alla vittoria di Marino: non sono praticamente intervenuto su nulla, né tantomeno qualcuno mi ha chiesto di farlo, anche perché come sai, e sanno tutte le persone in buona fede, dal 2008 fino alle ultime elezioni comunali per mia scelta e per scelta del gruppo cittadino e nazionale sono rimasto ai margini e del tutto isolato.
Anche se, purtroppo, una certa vulgata che va di moda può non crederci. In questi mesi le cose non sono andate bene e si è conclusa l’esperienza del Sindaco in modo traumatico. Tu critichi, anche se solo sul piano politico e con rispetto, l’operato del Commissario Orfini. Davvero non sono in grado di addentrarmi nelle critiche che svolgi, molto interne alla vita dei circoli e dei territori. Una cosa però la voglio dire: Orfini è stato coraggioso nell’assumere un compito quasi impossibile, ha fatto sentire a Roma il “piglio” di una direzione politica che mancava da troppo tempo, sostituito da un esercizio deprimente di frasi fatte e da un incessante lavorio tra le correnti; ha sostenuto Marino finché è stato possibile in modo trasparente e in alcuni casi anche a muso duro e ha gestito le sue dimissioni con nettezza ma in modo civile. Orfini, però, insieme ad Orlando, è il punto di riferimento e l’organizzatore di un’area-corrente politica, “i giovani turchi”.

Il fatto di superare alcune pratiche non può essere soltanto un appello morale. Finché ci saranno le correnti, esse inevitabilmente lotteranno per conquistare più spazio. Occorre, come vado dicendo e praticando da anni, non riconoscere più una rappresentanza istituzionale e negli organismi dirigenti alle correnti, trasformandole in aree di ricerca, ideali e di pensiero e costruendo luoghi nei quali gli iscritti possano discutere e decidere secondo la logica una testa-un voto. Le maggioranze e le minoranze così si potranno scomporre ricomporre in continuazione. E i fenomeni che giustamente tu combatti saranno avviati a soluzione in modo strutturato e duraturo”.

Nella sua risposta, Bettini centra un tema che ritengo fondamentale, ovvero la damnatio memoriae con cui una parte non marginale della sinistra romana – sia nei partiti che in alcuni ambienti culturali – ha liquidato impietosamente la stagione del “Modello Roma”. I “maligni” a cui faccio riferimento nell’articolo precedente, direbbero che a quel “Modello Roma” si è voluto sostituire il “Modello Buzzi” e forse non avrebbero tutti i torti.

Ciò che è stato però evidente, è che ci sia stata una scissione netta tra la figura del sindaco e quella del movimento culturale e politico che avrebbe dovuto governare Roma al suo fianco. La scelta di Ignazio Marino è senz’altro figlia di questa scissione, le modalità della sua cacciata ne sono state la logica conseguenza. Fino a quando non si eliminerà questo paradosso, chiunque sarà il candidato del Pd e dei suoi possibili alleati a sedere su quello scranno non avrà una visione della città e non saprà immaginare i suoi futuri possibili, le sue trasformazioni.

È probabilmente questa mancanza di visione, che porta con sé l’incapacità di leggere la città e di visualizzarne il cambiamento, che oggi limita la portata e l’efficacia delle forze progressiste, ancor più delle filiere di potere che forse, se costrette in un binario, sarebbero quasi inoffensive. Sicuramente non è solo un problema romano, ma Roma, come è normale che sia, si concentrano tutti i vizi italici e non sempre anche le virtù. Nella Capitale il potere e le sue degenerazioni si respirano, si vedono, si vivono.

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