Partiti e politici

Cari borghesi, non funziona così: non è uno scandalo solo perchè lo decidete voi

29 Ottobre 2018

Se lo sono sudato e meritato, le sei “ragazze terribili” di #Romadicebasta, il successo di una piazza piena di anime, colori, entusiasmi. Al punto che hanno persino dovuto cedere – chissà quanto a malincuore – porzioni di territorio a chi meriti non aveva e invece se n’è gloriato come fosse cosa sua (ogni riferimento al Partito Democratico è puramente casuale). Si può ripartire da lì, da quella piazza pienissima, lo hanno scritto e pensato in tanti, e la Stampa di Torino ha dedicato alla protesta in Campidoglio un approfondimento di Fabio Martini, dal titolo «Parte da Roma la rivolta del ceto medio». Ceto medio riflessivo, si diceva un tempo. Martini, che è cronista attento, ha persino evocato i Girotondi di morettiana memoria, indicando nell’indimenticato “Con questi dirigenti non vinceremo mai” di piazza Navona l’apoteosi di uno scollamento definitivo dalla politica dei partiti. Noi non ci assoceremo a questo parallelo, che ci pare ardito per più motivi. In primis, l’identificazione dell’avversario, che in quel tempo era addirittura il Nemico Pubblico N.1 e cioè Silvio Berlusconi e oggi, molto più modestamente, quella motozappa di sindaca che è Virginia Raggi. Ma poi, soprattutto, per i toni e le parole. “Girotondi” fu evocativo di molte sfumature e la scelta di quella parola-simbolo fu in qualche modo geniale: richiamava qualcosa di fanciullesco, di eternamente allegro, ma anche quel senso di accerchiamento perenne, di controllo sociale mano nella mano che intende togliere il respiro a chi sta nel mezzo. Nel caso della protesta contro la Raggi e il degrado di una città come Roma, le parole sono state più definitive e dirette: Roma dice basta.

Allora, si può davvero ripartire da qui, dalla piazza stracolma del Campidoglio? Chi vi scrive ha avanzato qualche piccolo dubbio e lo ha fatto in maniera lieve, come conviene alla chiacchiera social. Magari esagerando un po’ nell’ironia, e sempre con l’uso della leggerezza consapevole. Li abbiamo chiamati le “Zetatielliste e gli Zetatiellisti”, come dire che stavolta scendevano in piazza i privilegiati del primo Municipio e non le superevocate periferie. Mal ce ne incolse, ci siamo ritrovati ora raggisti, nel senso di suiveur di Virginia, ora qualunquisti, ora anche un po’ ingrati e irriconoscenti essendo, di quel municipio, parte attiva: ma che fai, ti sfili dalla tua condizione borghese, solo per trovarti una tua nicchia? Tutte condizioni che abbiamo vissuto in assoluta serenità, non avendo mai dovuto dar conto a nessuno, politicamente. Non abbiamo neppure votato per la sindacatura Raggi (ovviamente nemmeno per quello scarsone di Giachetti, semplicemente non abbiamo votato), come invece avranno fatto gloriosamente molti di quelli che erano in piazza, ora nella dolorosa condizione di spernacchiati in casa.

Abbiamo ricevuto, poi, la telefonata attenta e affettuosa di Marco Ferrante, amico e vice direttore de La7. Che ci ha detto, in premessa: “Caro Michele, vorrei dirti una cosa importante, posso?” Ne è seguito qualcosa di bello, perché Marco Ferrante, davvero in maniera appassionata, ci ha parlato del suo amore per una città vilipesa come Roma. Ne sapevamo l’impegno dai suoi “reperti” fotografici che posta su Facebook, in cui offre al pubblico pagante le orribilità che davvero esondano copiose. Al punto che certi amici, ci ha confessato, lo canzonano un po’ come fosse uno sceriffo di aiuole devastate e cassonetti squarciati. La qual cosa gli fa girare immensamente i coglioni: “Ma si rendono conto di come è ridotta Roma, qui l’impegno di ognuno di noi è necessario, altro che ridere”. Poi siamo arrivati al punctum dolens. Le élite. Secondo Marco, salveranno il mondo. “Una, cento, mille, diecimila borse di Prada in piazza, altro che storie. E chi dovrebbe indicare una strada, se non le élite, siamo realisti, Michele?”.

Il ragionamento ha una sua forza e l’immagine di quel ceto medio riflessivo che protesta in Campidoglio ha lasciato certamente il segno. Ma non convince. Soprattutto su un punto, che è essenzialmente culturale. Ed è proprio l’idea che siano esattamente le élite a dettare tempi e modi della controrivoluzione, che si dia “inizio alla festa” solo quando lo dicono e lo decidono loro, che «è» scandalo solo quando è certificato da ambienti borghesi, che fa figo, molto figo, scendere in piazza perché ci ritroveremo tra noi, tra paria, con il senso della tranquillità e della soddisfazione che deriva dall’essere tutti insieme appassionatamente cittadini di quel benedetto Municipio I.

Eh no signori, il livello dello scandalo non lo decidete voi. Nè decidete voi se la misura sia colma. Questo è un sentimento di cui non v’è proprietà intellettuale e la cui «sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Altrimenti si dovrebbe concludere che l’essere buon cittadino, ogni giorno, ogni occasione in cui necessita, è una forma sterile di partecipazione sino al momento in cui qualche benpensante non raccoglie – misericordioso – i nostri destini e i nostri cocci e li porta in piazza come concessione borghese che ci viene gentilmente elargita. Gli scandali avvengono per progressione spirituale, corrodono particelle, formano giorno per giorno la coscienza dei cittadini. Certo, è vero, poi ci vuole qualcuno che metta insieme questo grande subbuglio interiore e qui, malinconicamente, si interrompono tutte le migliori intenzioni perché i partiti sono dei morti viventi. Ma tra il Partito Democratico sul tavolaccio della morgue e “dieci, cento, mille, diecimila borse di Prada in piazza”, ci sarà pure un’onorevole via di mezzo, non credi Marco?

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Foto di copertina: Tutti per Roma. Roma per tutti. La Pagina

 

 

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