Partiti e politici
Referendum ATAC: votare con il cuore e lasciare il cervello a casa
Leggendo i due quesiti relativi al referendum sul servizio del trasporto pubblico Atac, che si terrà a Roma il prossimo 11 novembre, è lecito chiedersi chi potrebbe essere così folle da barrare la casella del “No”. Nel senso che il tono dei due quesiti referendari disegna un mondo ideale, nel quale il principio di concorrenza regna sovrano a tutto vantaggio dei cittadini che, laddove votassero “Si”, potrebbero avere mezzi di trasporto efficienti a tariffe eque. Un po’ come se si chiedesse, “Volete andare in Paradiso o rimanere all’Inferno?”.
Ciò che i quesiti non spiegano però è la carenza a livello organizzativo e di competenze che affligge la macchina amministrativa capitolina. Ovvero, l’incapacità conclamata, ad esempio, di licenziare un bando di gara europeo in tempo utile e non impugnabile. Solo due anni e mezzo fa l’allora assessore alla legalità Alfonso Sabella disse in diverse interviste e scrisse nel suo libro “Capitale Infetta” che “in Campidoglio dominava il ‘fancazzismo’ e la filosofia dell’ ‘ad culum parandum’ cioè, non fare niente per non prendersi responsabilità e non correre alcun rischio”. Così come, sempre Sabella aveva individuato come l’emergenza programmata fosse (è ancora così?) prassi diffusa al Comune di Roma. Cioè, per ovviare al sacrosanto bando di gara si arriva a ridosso dei termini di scadenza di un contratto per poi affidare il servizio in tutta fretta con una proroga fuori da ogni crisma di legalità.
È doveroso chiedersi, qui nel mondo di noi umani e cittadini di Roma – e non certo nel paradiso disegnato dai due quesiti referendari – cosa sia cambiato nel frattempo a Roma. A guardare le sorti della giunta Raggi, è lecito rispondere che non è cambiato assolutamente nulla. La città è abbandonata a sé stessa, i bandi di gare necessari ad assegnare appalti fondamentali per il funzionamento della Capitale tardano ad arrivare, continuando così una mala-gestione cittadina che è connaturata all’essenza stessa di Roma. La macchina amministrativa, al di là dell’incapacità politica della giunta Raggi, era ed è inceppata.
Dovremo certo sperare per il meglio, ma il referendum su Atac pare davvero pretenzioso. Come se fossimo nelle condizioni ideali di realizzare quanto promesso sia dai sostenitori del “Si”, sia da quelli del “No”. L’esperienza insegna che, laddove dovesse vincere il “Si”, molto probabilmente ci troveremmo di fronte all’incapacità tecnica di progettare in tempi utili un bando europeo per l’affidamento della gestione del trasporto pubblico e, anche laddove dovesse andare a buon fine, ci troveremmo impantanati in una selva di ricorsi al Tar. Se dovesse, invece, vincere il “No”, il futuro che ci aspetta è ciò che abbiamo oggi. Trasporti al limite della sopravvivenza, scioperi continui, corse saltate, linee soppresse, mezzi fatiscenti pronti a prendere fuoco e stazioni metro chiuse per continui black-out o fughe di fumo, quando non allagate. L’esperienza insegna che, anche in seguito ad un cambio di amministrazione e di maggioranza politica in Campidoglio, la musica non cambia. Le consorterie di potere, utili a ottenere consenso politico, fanno sì che sia impossibile intervenire sull’organizzazione dei dipendenti, così come sulle linee di investimento strategico delle aziende municipalizzate. Il cancro è questo.
Ulteriore spunto di riflessione è che, al di là di tutto, rimane ostico accettare come la politica demandi ai cittadini una scelta così cruciale e complessa per le sorti di Roma. Decidere o meno di affidare ai privati la gestione dei trasporti pubblici comporta conoscenze tecniche di strategia aziendale, così come di ingegneria dei trasporti. I due quesiti nulla dicono rispetto, ad esempio, a chi deciderà le tariffe, così come non chiariscono chi effettuerà le scelte circa le linee da rafforzare e quelle che andranno, eventualmente soppresse. E ancora, il secondo quesito nulla chiarisce su quali possono essere i “trasporti collettivi non di linea”. Solo facendo una elaborata ricerca, si scopre che il Comune potrà dare ai privati la gestione del trasporto pubblico, ma manterrà il potere di decidere le tariffe dei biglietti e degli abbonamenti. E già ci si immagina come sia difficile per un qualsiasi operatore privato gestire un’impresa, decidere gli investimenti, senza poter però determinare le entrate. Così come, si presume che, trattandosi di un servizio pubblico, il privato dovrà garantire un efficiente servizio di trasporto anche per quelle zone periferiche della città a bassa convenienza economica. Quanto ai “trasporti collettivi non di linea”, anche con un grande sforzo di fantasia, rimane il dubbio su quali possano essere. Tutto ciò si desume, si immagina, ma non è certamente dichiarato nei due quesiti.
I sostenitori del referendum si richiamano al sacrosanto principio della “democrazia diretta”, essendo di fatto più populisti dei movimenti populisti stessi. In realtà, si può ben comprendere come si tratti di un referendum consultivo che potrà essere tranquillamente disatteso o ignorato. E così, come per le “Primarie”, anche le liberalizzazioni nel nostro Paese sono fatte solo un po’ alla maniera degli anglosassoni, senza averne però il coraggio e il pragmatismo che necessita.
Ci troviamo, quindi, dinanzi a una classe politica incapace di decidere concretamente la strategia dei trasporti di Roma e un popolo chiamato a dover scegliere ma gravato da un ammanco di conoscenze tecniche.
Con tali premesse è come chiedere ai cittadini se sia più “simpatica” la gestione pubblica o quella privata dei trasporti. Cercando, una volta di più, di solleticare la pancia dei cittadini. Chiedendo a questi ultimi di votare – parafrasando il trash domenicale – “Con il cuore!”, più che con il cervello.
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