Olimpiadi
Le Olimpiadi sono una cosa seria, il problema è l’Italia di Raggi & Malagò
C’è qualcosa che non quadra.
Perché il dibattito in Italia langue sempre a metà tra il livello #rancore e quello di #mestiziasociale?
Nello specifico, anche su una questione prettamente tecnica quale l’opportunità (o meno) di ospitare le Olimpiadi a Roma, è andato in scena un indegno teatrino, sospeso tra i mancati appuntamenti del sindaco Raggi, da una parte, attardatasi in trattoria mentre il presidente del Coni l’aspettava in Campidoglio, e la campagna mediatica di quest’ultimo, dall’altra, tesa a sottolineare l’imperdibile occasione per Roma di organizzare such a big event, a colpi di endorsement dal mondo dello spettacolo e dello sport (che contano come un quarto posto all’Olimpiade, per intenderci), ma quasi mai forte di una robusta argomentazione progettuale.
E allora c’è sempre quel ben noto ovosodo, che non va né su né giù, perché si è persa un’occasione, l’ennesima di mostrarsi paese maturo e sufficientemente civile.
A proposito di uova sode, in realtà, viene in mente il buon vecchio Galileo Galilei, ma ci tornerò in conclusione.
Per ora partiamo dai fatti: la questione è semplice e lineare.
Vale la pena o no ospitare le Olimpiadi?
Una domanda chiara con una mole di evidenza tecnica da citare e sulla quale entrare nel merito.
In realtà si poteva e doveva davvero discutere di costi e benefici, perché di dati a disposizione ce ne sono tanti.
Già altri, e in molte occasioni, hanno affrontato la questione: qui, qui e qui qualche esempio.
A ben guardare, all’interno della letteratura scientifica che ha provato a stimare il vantaggio o meno di ospitare un’Olimpiade, l’evidenza è piuttosto concorde: sono molti i rischi e moltissimi i contro di questa avventura.
L’Economist, in particolare, si è soffermato sulle motivazioni prettamente elettorali che spingono una data città (e un Paese insieme) a candidarsi. Citando il caso di Tokyo, la rivista ha sottolineato come, il più delle volte, le ragioni che spingono a battersi per ottenere l’investitura sono legate a un fatto puramente numerico: dal momento in cui si presenta la candidatura e si vince a quello in cui partono i giochi, passano infatti 7 anni.
Forse non sono tanti, ma il fatto è che, con buone probabilità, chi si è trovato a gioire per la vittoria del progetto di candidatura non è lo stesso governante che, in seguito, si trova a sostenere anche gli oneri dei lavori e a ospitare i giochi. Insomma, il caro vecchio “armiamoci e partite”.
In questo, dunque, va riconosciuto a Virginia Raggi una certa coerenza, o quanto meno l’intelligenza politica di avere fiutato l’elettorato: nell’Italia sfiduciata ed esausta di questi anni di crisi, il consenso non sembra andare verso l’organizzazione di un evento di portata mondiale quanto, piuttosto, in direzione della prudente onestà a priori di chi si chiama fuori.
Qui, però, una critica al sindaco si può fare eccome: perché non entrare nel merito e affrontare i temi nello specifico?
I dati mostrano abbastanza impietosamente che, se un effetto Olimpiade esiste, esso riguarda prevalentemente la felicità e il benessere soggettivo dei cittadini del paese ospitante.
Felicità, percezioni: dimensioni troppo intangibili che, quando, invece, si punta lo sguardo verso indicatori più concreti (leggi, flussi turistici e ricadute occupazionali), si trasformano in effetti quasi sempre irrilevanti.
Virginia, però, invece che citare studi o numeri, ha preferito rifugiarsi in argomentazioni spurie: “non organizziamo i giochi perché stiamo ancora pagando i debiti di Roma 1960”. Per carità, il debito della città di Roma è l’unica cosa umana che si vede dallo spazio insieme alla muraglia cinese, eppure può essere questa la visione di un primo cittadino?
Se qualcosa è stato fatto male, hai la possibilità di marcare la tua differenza proponendo un progetto virtuoso e realizzandolo, non accampando scuse su un passato lontano di cui non sei responsabile.
Troppo comodo.
Non è che se una guerra o un terremoto distruggono una città e qualcuno lucra sulla successiva ricostruzione, chi viene in seguito si può permettere di non agire perché sta ancora pagando i debiti dei primi disonesti.
“Non organizziamo i giochi perché temiamo la corruzione”.
Non mi soffermo nemmeno sul paradosso di una tale affermazione, da parte di un sindaco che sta sostanzialmente dichiarando la propria incompetenza e incapacità a fare quello che la cittadinanza le ha chiesto di fare, votandola: promuovere lo sviluppo di Roma facendosi garante di una politica trasparente e decisa.
Il fatto è che la logica di Virginia è proprio intrisa di paura e condivisione della stessa.
Anche l’unica ricerca scientifica che cita sempre è uno studio dell’Università di Oxford e viene da chiedersi se, effettivamente, lo stesso sia stato letto attentamente dal suo staff.
Questa ricerca prende in considerazione i giochi olimpici del passato ma non ha l’obiettivo di rispondere alla domanda: ospitare le Olimpiadi produce benefici a sufficienza?
Lo studio si concentra esclusivamente sui costi organizzativi, infatti, per mostrare in modo rigoroso che essi, quasi sempre, sono sottostimati al momento della presentazione del progetto.
La parte conclusiva della ricerca, addirittura, getta pure un cicinello di speranza quando afferma che, già nel caso delle Olimpiadi di Rio, e grazie all’introduzione di una più oculata gestione delle procedure, l’inefficienza delle stime sui costi sia stata significativamente ridotta.
Non è una ricerca che stimi i benefici delle Olimpiadi in termini di sviluppo di breve o lungo periodo.
In realtà, in questa direzione, c’è uno studio empirico che prova a rispondere alla domanda: è un lavoro in cui gli autori trovano una correlazione positiva e significativa tra il fatto di ospitare le Olimpiadi e l’aumento delle esportazioni del paese ospitante.
Insomma, un vantaggio anche piuttosto consistente (si parla del 30%) con tanti caveat.
Innanzitutto, a trarre beneficio sarebbero i settori che esportano di più in un’economia. Secondariamente, quella che viene presentata come una relazione causale appare, al più, come una sana e robusta correlazione.
Infine, incuriosisce un altro risultato dello studio: i ricercatori, infatti, affermano che non soltanto i paesi ospitanti riescono ad esportare di più, ma anche quelli delle città sconfitte che hanno presentato la propria candidatura ottengono lo stesso effetto.
Ecco, magari lo staff della Raggi potrebbe dare un’occhiata a questo dato, che porta con sé un corollario non banale proposto dagli autori: ciò che, probabilmente, produce un effetto positivo non è l’ospitare in sé un mega-evento come le Olimpiadi, ma il segnale che si dà all’esterno quando ci si candida per l’investitura ufficiale.
Tra rancori, dispetti, streaming sul blog e ospitate da Fazio, mi chiedo quale immagine abbia dato il nostro Paese in questo frangente rispetto alla vexata quaestio.
Le parti in causa, nel frattempo, sempre più si disprezzano e sempre meno condividono il benché minimo metodo di discussione.
E qui tornano in mente proprio le uova sode di Galileo…
Nel 1618 era apparsa una cometa e, coi mezzi scientifici dell’epoca, si cercava di spiegarne la natura: il padre gesuita Orazio Grassi sosteneva che si trattasse di un corpo celeste esterno all’atmosfera che, a contatto con l’aria, diventava incandescente. Adduceva, il nostro, come argomento, l’episodio raccontato nell’enciclopedia Suida e secondo cui gli antichi Babilonesi cuocevano le uova sode facendo roteare nell’aria una fionda fino a scaldare sufficientemente le uova e abbrustolirle.
Galileo, invece, sosteneva che le comete fossero un’illusione ottica e la sua risposta al padre gesuita è diventata celebre (è contenuta nel Saggiatore): poiché non mancano le uova e neppure braccia forti che sappiano far roteare una fionda in aria, il fatto che la prova concreta dell’esperimento riproposto dal Grassi non produca l’effetto sperato (ma, nella migliore delle ipotesi, soltanto qualche uovo rotto in terra), induce a ritenere che l’unico elemento mancante per avere successo sia l’essere babilonese. E che dunque proprio l’essere Babilonesi sia causa della cottura delle uova.
La crudele ironia di Galileo è uno degli esempi più felici di comunicazione scientifica del metodo sperimentale.
E la questione è tanto più sfiziosa se si pensa che Grassi aveva ragione (le comete sono effettivamente corpi celesti) e Galileo torto.
Il fatto è che il primo era nel giusto per le ragioni sbagliate e il secondo sbagliava, ma per le ragioni giuste.
Così oggi noi ci dibattiamo tra i 5 stelle, da un lato, che, probabilmente, hanno dato la risposta giusta rispetto alla questione Olimpiadi, senza tuttavia argomentare con dati alla mano o proporre una visione progettuale di sviluppo per la città di Roma, felici semplicemente di replicare quello che dice l’autorità Grillo sul suo blog (una volta l’autorità era Aristotele, ma sic transit).
E dall’altro, mentre una volta Galileo scagliava i suoi strali taglienti con la sagacia della sua penna e la vivacità dell’intelligenza scientifica, abbiamo Malagò…
Ecco, fossi in qualche stratega di palazzo, mi preoccuperei di questo.
Perché il rischio di perdere il tuorlo della questione lascia un albume di tristezza mentre il mondo va di fretta e le uova si sono rotte da un pezzo.
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