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Pretendo un paese che non ha paura di candidarsi per le Olimpiadi. È grave?
Ci risiamo. Ogni paio di governi spunta un’ipotesi olimpica, e ogni paio di governi la discussione è la stessa. Da un lato, chi vuole le Olimpiadi perché sono un sogno, perché sono il più grande evento mondiale, perché portano indotto, perché sono le Olimpiadi. E dall’altro chi, guardando velocemente il cv del paese in questione, l’Italia, immagina il Pil della corruzione interna schizzare a vette inimmaginabili perfino per noi, si figura ruberie che perfino quelle che censiamo da decenni scolorirebbero, oltre a ritardi e buchi di gestione impressionanti, che le figuracce dei vari G8 e gli affanni di Expo – anche loro – sembrerebbero marachelle di ragazzini che non hanno fatto i compiti. Figurarsi, poi, se la candidatura per le Olimpiadi italiane viene ufficializzata adesso, la città prescelta è naturalmente Roma, e siamo solo nel pieno svolgimento di un’inchiesta epocale come quella di Mafia Capitale. La voce dei secondi, degli scettici e dei contrari, è sempre stata forte e l’ultima volta si udì tonante per elogiare Mario Monti, come ben ricorda Michele Fusco e Massimiliano Gallo che, un paio di giornali fa, stavano con me sulla linea dei favorevoli alle Olimpiadi. Ma la voce di chi le Olimpiadi non le vuole è in questi giorni più forte, maggioritaria e – diciamocelo – ragionevole che mai, e l’ha espressa in modo chiaro il nostro Carlo Maria Miele.
Eppure, eppure qualcosa non torna. Non a me, quantomeno, che effettivamente continuo a pensare che la storia e la cultura di un popolo non sono il suo destino naturale, ma un insieme di scelte, decisioni, regole, pratiche e mentalità. Tutte cose che succedono e si formano, appunto, nella storia. Cose che cambiano, che si plasmano, che si forzano perfino. Elementi rispetto ai quali, i paesi civili e democratici si confrontano anche aspramente e fanno battaglia civica e politica. Qui, da queste parti, respiro invece la solita mesta aria di rassegnazione, che “tanto siamo così”, che “immaginati che ruberie”, che “non se ne esce”. A chi muova l’obiezione sul fatto che la via maestra non passa per la rinuncia, ma per il ripristino delle regole di legalità, rispetto, civiltà, si risponde che la battaglia è semplicemente persa, chiunque sia a combatterla dal lato delle istituzioni, perché la mafia che è dentro di noi è semplicemente più forte. Nel passaggio finale, i critici, ricordano l’esempio greco, quello di un paese profondamente disordinato che con le Olimpiadi s’è scavato l’ultimo pezzo di fossa. Già.
Ora, io capisco bene che la sfida sia improba, enorme e non è così realistico immaginare che in pochi anni il barometro della civiltà italica volga al bello. Lo capisco bene, e lo capirebbe anche un bambino. Quel che non capisco è come si possa semplicemente accettare che lo scenario presente sia ineluttabile e immodificabile, e mentre si dice questo non si ammetta, conseguentemente, che l’unica cosa che si può fare di qui è andarsene. Eh sì, perché se l’unica cosa che possiamo essere è la cosa peggiore che siamo – ladri, incapaci, senza-rispetto-e-senza-legge – allora tanto vale mollare baracca e burattini e andare in paesi normali, in cui la valutazione sulla candidatura a un grande (e meraviglioso) evento come le Olimpiadi è soggetta a riflessioni politiche, non a divieti metafisici sulla natura e il carattere della nazione. Siccome per il momento siamo ancora quasi tutti qua, varrà la pena di rimboccarsi le maniche e di combattere per un paese decente.
A questo finale di racconto – è vero – manca un passaggio non da poco. La classe dirigente che c’è, quella che propone le Olimpiadi a Roma per il 2024, ha spalle abbastanza grandi per reggere questa sfida? Per combattere una battaglia culturale epocale? La domanda è lecita, e i dubbi anche. Perché per presentarsi a questo “concorso”, e magari vincere, e infine fare tutto quel che serve, c’è bisogno di una classe dirigente davvero robusta, con idee chiare, una macchina organizzativa forte, una visione precisa sia di scenario sia di dettaglio. Probabilmente è troppo per quel che è oggi la nostra politica. Ma davvero vogliamo condannarci a credere che lo sarà, inevitabilmente, anche per i prossimi 5, 10, 50 anni?
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