Partiti e politici

Perché a Roma non poteva che finire così

31 Ottobre 2015

L’unica incognita della tragicomica romana, era come si sarebbe chiusa prematuramente questa disastrosa esperienza amministrativa del centrosinistra. Uso volutamente questa definizione perché sarebbe intellettualmente disonesto dare tutte le colpe del fallimento all’ex sindaco Ignazio Marino, che è stato solo uno degli attori di uno spettacolo teatrale di terz’ordine che potremmo intitolare “Il dottor marziano”. Sarebbe anche sbagliato addossare tutte le colpe al Pd, visto il ruolo non secondario giocato da altri soggetti della maggioranza che sosteneva il sindaco, a cominciare da Sel, partito che ha cambiato posizione sulla vicenda almeno una dozzina di volte.

Chi ne esce peggio? Difficile dirlo.

Il sindaco “marziano” ha dimostrato sin dall’inizio del suo mandato di essere un pesce fuor d’acqua. Il suo era un profilo volutamente civico, pur essendo stato un senatore eletto nel Partito Democratico e precedentemente uno dei candidati alla segreteria dello stesso. Non fu un caso che per contrastare l’ondata di antipolitica che ha spazzato via Bersani e tutta la vecchia dirigenza dem, alle primarie romane i due candidati più votati furono un ex chirurgo e un ex mezzobusto televisivo “prestati” alla politica.

Sin dalle prime battute era apparso chiaro a tutti che il “marziano” non sarebbe stato un Argan o un Petroselli, ma neanche un Rutelli o un Veltroni. Marino era Marino, con tutta la sua goffaggine, la sua inesperienza e un carattere molto difficile da gestire. Era stato messo lì per vincere le elezioni, il governo reale della città doveva invece essere un lavoro sinergico di una classe dirigente capace e preparata, capace anche di lavorare nell’ombra e coprire i limiti del primo cittadino. Una classe dirigente in grado di gestire una città senza grandi risorse, una città devastata dalla gestione dei cinque anni precedenti caratterizzati da malgoverno e sperpero di risorse pubbliche, una gestione distruttiva che era stata spesso assecondata anche da chi avrebbe dovuto combatterla.

Quella classe dirigente ha miseramente fallito il suo compito, a cominciare dai consiglieri comunali, molti dei quali eletti non per conclamate capacità amministrative ma per la loro scaltrezza nel raccogliere voti di preferenza. E le ragioni profonde del tragico finale, consumatosi davanti a un notaio e non a viso aperto di fronte alla città e ai cittadini che li avevano eletti, stanno proprio in una mancanza di autorevolezza diffusa.

Diciamolo chiaramente. Di motivi per sfiduciare Marino in aula ce ne sarebbero stati moltissimi. Uno su tutti quell’ultima bugia, quell’avviso di garanzia ricevuto giorni prima e tenuto nascosto fino all’ultimo minuto possibile. E un’analisi severa sulle tante omissioni verso la sua stessa maggioranza commesse dal sindaco durante tutto il suo mandato sarebbe stata tutt’altro che complicata da stilare. Il Pd avrebbe potuto dire: “non ci rappresenta più, lavora in solitudine e male, non ha più la nostra fiducia” e chiudere la questione con una “scomunica” motivata. Certo, un’eventuale mozione di sfiducia avrebbe contato adesioni anche di esponenti dell’opposizione, ma sarebbe stato un atto politico, non una somma di firme tra consiglieri di maggioranza e opposizione. Ma l’impressione è che su un atto politico non ci sarebbe stata l’unità politica del gruppo, da qui la decisione di “inchiodarli” con le firme.

La verità è che un gruppo consiliare non autorevole e politicamente diviso, nato da quel “partito cattivo” fatto di signori delle tessere e delle preferenze e colpito al cuore dall’inchiesta su Mafia Capitale, non ha avuto né la forza, né gli strumenti, né tantomeno le persone adeguate per andare in aula a rappresentare il proprio partito. Per questo non ha potuto fare altro che certificare una linea decisa in altri luoghi, cedendo interamente il ruolo di “cuscinetto” tra partito e amministrazioneal commissario del partito.

E qui si apre un capitolo sul Pd Roma, commissariato dopo lo tsunami di Mafia Capitale e attualmente gestito da Matteo Orfini, “giovane” dirigente a cui è stato dato un incarico forse troppo al di sopra delle sue stesse possibilità. Il commissario ha commesso dei gravi errori ammessi solo in parte. L’ultimo della serie – se le notizie circolate fossero fondate – è stato proprio quello di strappare le firme dei consiglieri uscenti con una promessa di ricandidatura alle prossime amministrative. Un’ipotesi che vista l’aria che si respira tra elettori e volontari del Pd romano, potrebbe danneggiare ulteriormente il partito e accentuarne l’emorragia di consensi e di adesioni in atto.

Ma all’ex fedelissimo di D’Alema è stato affidato un incarico che probabilmente avrebbe fatto impazzire persino il più preparato dei dirigenti del PCI del dopoguerra. E la frase scritta da Gramellini nel suo editoriale sulla Stampa non sembra del tutto millantata: “Orfini è la prova vivente dell’astuzia di Renzi, che dopo avere rottamato i vecchi del partito togliendo loro le poltrone, ora rottama i giovani e potenziali concorrenti semplicemente assegnandogliele”.
Al “giovane turco” è stato consegnato un partito lacerato, diviso in gruppi fondati sul consenso personale di alcuni capibastone. Gli è stato chiesto di risanarlo, di azzerarlo e di farlo ripartire. Probabilmente l’ex segretario della sezione Ds Mazzini non era il profilo adatto a un’operazione di questo tipo, soprattutto perché anche lui parte di quel Pd romano e capo di uno di quei gruppi che se ne contendono l’egemonia.

Sul fronte amministrativo, inizialmente gli era stato dato il compito di “commissariare” l’ex sindaco, affiancandogli delle personalità di livello che potessero correggerne le stravaganze e limitarne i danni. Anche qui ha commesso un grave errore, imponendo in giunta una figura come Stefano Esposito. Una scelta incredibile, che trova una spiegazione solo nell’appartenenza del senatore torinese alla sua stessa corrente. Esposito, nel suo brevissimo mandato, è stata l’ennesima scheggia impazzita che si è andata ad aggiungere alle tante già in campo, a cominciare dal sindaco. Ha lasciato il Campidoglio dopo un numero imbarazzante di gaffes e denunciando che in Atac, l’azienda dei trasporti, si facevano appalti senza gara. Una grande scoperta che merita un plauso. Se avesse avuto qualche mese in più forse si sarebbe accorto persino che centinaia tra dipendenti e dirigenti dell’azienda sono amici e parenti dell’ex sindaco Alemanno e di esponenti del suo partito.

Poi sono arrivati “l’editto argentino” del gesuita e i famosi scontrini. A quel punto il premier ha optato per la “soluzione finale”, costringendo il povero Orfini a “cambiare idea” e a trovare il modo più indolore possibile per mandare a casa Marino. Probabilmente quel tweet anti-grillino dove il commissario romano accusava quelli che volevano mandare a casa il sindaco in tempi non sospetti di avere la stessa posizione della mafia lo perseguiterà per il resto della vita. Almeno il suo antico mentore porta con sé la croce di una commissione bicamerale, non quella di un “cinguettio” mandato da uno smartphone. Altri tempi, altri uomini.

Il resto è storia di questi ultimi giorni. Il sindaco, dopo un lungo tira e molla consegna le dimissioni e poi si adopera alacremente per mettere in atto uno stillicidio fino al giorno in cui le ritira. Poche ore dopo i consiglieri firmano le dimissioni, chiudendo l’era Marino nel peggior modo possibile. Altro fallimento. Orfini spiega oggi in un lungo post su Facebook la sua versione, attaccando l’ex sindaco per il suo sfogo post cacciata e perseverando in un altro errore non irrilevante per chi dovrebbe ricoprire un ruolo di garanzia: collocare chi ha idee diverse dalle sue nel calderone di chi vuole restaurare il Pd “marcio” che c’era prima a Roma. Anche qui il buon Matteo potrebbe fare molto meglio.

E Matteo Renzi? Bella domanda.

Il segretario – premier del Partito Democratico ha evidentemente messo in conto una rovinosa sconfitta nella Capitale. Per cercare di evitarla dovrà probabilmente ricorrere alle “grandi intese”, magari accordandosi a una possibile ricandidatura di Alfio Marchini, sommando i voti del Pd – che a roma potrebbero ormai essere cosa rara – a quelli dei partiti di centrodestra, isolando l’asse Salvini / Meloni e giocandosi il ballottaggio con il Movimento 5 Stelle, dato in continua ascesa. Una cessione di sovranità che potrebbe persino far comodo a Leopolda s.p.a., dato che Roma era uno degli ultimi avamposti della sinistra interna.

Resta un fatto assai poco contestabile. Il premier va in confusione quando è costretto a occuparsi del partito di cui è segretario. Un paradosso se si pensa che ad oggi parliamo dell’unica carica per cui sarebbe stato eletto. Tutte le vicende locali, dalla Campania alla Liguria, fino al disastroso epilogo del governo di Roma, nascono da un partito che nei momenti in cui avrebbe bisogno di una guida si rivela acefalo. Chissà cosa sarebbe accaduto se il sindaco della Capitale d’Italia si fosse potuto confrontre in solitudine e a quattr’occhi con il segretario del suo partito nonché Presidente del Consiglio. Non lo sapremo mai.

Cala così il sipario sulla pièce “il dottor marziano”. Le luci in sala si accendono subito, tra facce perplesse, risate di scherno, proteste. C’è persino qualcuno nelle ultime file che continua a russare. Tutti attendono l’uscita degli attori per coprirli di fischi e chiedere il rimborso del biglietto, ma non ci sarà nessuna passerella. Sul palco c’è solo un foglio con ventisei firme. Spettacolo finito, tutti a casa.

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