Roma

Ogni volta che torno dall’estero, sono sempre più amareggiato per l’Italia

18 Maggio 2015

Ogni volta che torno all’estero sono sempre più incazzato con l’Italia. E, tornando a Roma, lo sono in particolare con la Capitale d’Italia. Proprio così: incazzato. Succede con drammatica puntualità al rientro. Accade perché per qualche tempo sono stato ospitato in un luogo, magari meno ricco secondo i dati del Pil, in cui le cose più semplici funzionano, confermandomi che per farle funzionare non c’è bisogno di una ricchezza nominale. Basta la buona amministrazione. Tutto questo è un luogo comune, lo so: ma di fronte al luoghi comuni negativi non è il caso di restare inerti. Almeno è giusto concedersi l’indignazione pur nel generale senso di disperazione.

Così, ogni volta che torno in Italia avverto un senso di indignazione che però si unisce all’avvilimento. Perché, non credo sia solo malasorte se all’arrivo in aeroporto, a Fiumicino, e su due dei quattro ascensori per salire alla stazione dei treni trovo la scritta “guasto, in manutenzione. Ci scusiamo per l’inconveniente”. Due su quattro, il 50%. Poi prendo uno di quelli funzionanti e arrivo in un ambiente che assomiglia più a un’area tropicale che a una zona di transito.

Metto alle spalle l’atterraggio, già abbastanza amareggiato per essere tornato sul suolo italico, e mi dirigo verso la banchina del binario, in attesa del treno. Ma in un accanimento fantozziano, c’è l’annuncio di ritardo: guasto sulla linea, ritardo di almeno mezz’ora. Almeno. Il tutto dopo aver corrisposto la “modica” cifra di 8 euro per acquistare il biglietto. Eppure, a sentire le Ferrovie dello Stato sembra che abbia super treni talmente tecnologici che alla guida non ci saranno macchinisti ma Batman. Giusto per la cronaca, i treni di quella tratta non sono dotati di adeguati spazi per adagiare i bagagli (quelli a mano non la maxi valigia). Ma questo è il minimo.

E poi perché tacere del servizio offerto dalla metropolitana? A Praga, pianeta terra quindi non Marte, indicano il tempo di attesa reale, con tanto di secondi. A Roma, Capitale d’Italia e gloria della storia italiana, i tabelloni riportano giusto il tempo stimato (vi invito a contare davvero l’attesa stimata è quella reale). Mentre di sera il servizio chiude temporaneamente alle 21.30 (sul sito Atac non è indicata neppure la data precisa, si parla di “circa tre mesi” a partire da aprile). E se anche questo è un luogo comune, pazienza. Ma peggio della ripetizione dei luoghi comuni c’è la rassegnazione.

Riavvolgendo il nastro del ritorno, che dire della sensazione di avvilimento provato durante il volo? Se all’uscita, tra aeroporto, treno e metropolitana mi sembrava di essere finito in un set con Paolo Villaggio versione Fantozzi, in aereo mi sono trovato in un film dei Vanzina, o comunque in un cinepanettone, con passeggeri chiassosi, che brandivano il proprio dialetto condito da risate sguaiate e tutto il resto che contiene una commedia pecoreccia. E, ammetto, di aver avuto la chiara idea di cosa mi attendesse al ritorno. Un grande senso di frustrazione per tutti i luoghi comuni che si confermano reali.

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