Partiti e politici

Nessuno ha più voglia di fare il sindaco

20 Maggio 2021

C’era una volta il sindaco. Le difficoltà che tutti gli schieramenti in campo stanno incontrando nel trovare candidati “forti”, in Comuni chiave come Roma, Milano, Napoli e Torino, la dicono lunga su come decenni di declino della politica abbiano lasciato terra bruciata su quella che un tempo era forse la vocazione più nobile di chi decideva di spendere la sua vita al servizio della comunità, ovvero quella di sporcarsi le mani con i piccoli e i grandi problemi delle città: con quei famosi marciapiedi e con quelle famose panchine tante volte evocati per dare il senso di un lavoro di fatica, con quei marciapiedi e con quelle panchine distanti anni luce dalla satolla pigrizia che si respira nelle buvette della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. La colpa di questa “fuga dai campanili” è però anche legata alle aspirazioni personali delle possibili candidate e dei possibili candidati: andare a gestire dei bilanci perennemente in rosso con poteri spesso limitati spaventa molto perché il rischio di diventare impopolari dopo pochi mesi di mandato è molto alto.

Il caso più eclatante è quello di Roma, dove Virginia Raggi ha deciso da tempo di sfidare la sorte (e un gradimento molto, molto basso) provando a giocarsela per un secondo mandato: c’è da dire che non aveva molte altre scelte, perché con la caduta di Giuseppe Conte e l’arrivo di Mario Draghi le già esigue possibilità di riciclarsi con un incarico di Governo sono diventate fantascienza. La decisione della sindaca uscente rende impossibile l’alleanza giallorossa, ma oggettivamente un suo ritiro sarebbe stato l’ennesimo colpo all’immagine del Movimento 5 Stelle, che con lei iniziò a gustare il sapore delle vittorie che contano. Chissà che a Raggi non riesca la “missione impossibile” per demeriti altrui, un po’ come in quelle partite di calcio in cui le squadre provinciali battono i grandi club perché queste ultime schierano le riserve snobbando l’avversario.

Veniamo, appunto, ai grandi club o presunti tali. All’ombra del Campidoglio si stanno consumando telenovele assai poco avvincenti e trovare sfidanti da opporre all’attuale prima cittadina si sta rivelando assai più complicato del previsto. In casa Pd, la “caccia” si è conclusa con la candidatura controvoglia di Roberto Gualtieri, non certo la prima scelta ma l’unica evidentemente percorribile per un partito rimasto pressoché identico a quello che avevamo lasciato la notte del 19 giugno del 2016, quando la grillina annientò il povero Roberto Giachetti, agnello sacrificale di quel renzismo invasato che mandò a casa Ignazio Marino spedendo i consiglieri comunali del suo stesso partito a firmare le loro dimissioni da un notaio. Gualtieri dovrà sfidare sei candidati in delle primarie senza file ai gazebo causa Covid, ognuno di loro tornerà da lui portando in dote i voti ottenuti per rivendicare uno strapuntino qualora dovesse andare bene. Se invece dovesse andare male, l’ex ministro verrà probabilmente ripagato per lo spirito di servizio dimostrato con una riconferma in uno dei due rami del Parlamento alle prossime elezioni politiche: con la spada di Damocle del taglio dei parlamentari non è poco.

A complicare le cose nel campo del centrosinistra “allargato”, la candidatura di Carlo Calenda. L’ex ministro non ci pensa neanche a farsi da parte, si è impuntato e “batte i piedi” come solo un figlio della ztl sa fare. Anche lui non ha nulla da perdere e ha già detto che se non dovesse arrivare al secondo turno (cosa assai probabile…) appoggerà Gualtieri qualora dovesse farcela. Arrivato a Strasburgo grazie alla candidatura chiesta e ottenuta nelle liste del Partito Democratico (che per celebrare l’evento modificò addirittura il suo simbolo), sfrutterà probabilmente i riflettori della campagna elettorale per assicurarsi una base di consenso da spendere al prossimo giro. Che nessuno si azzardi a dire che è un pariolino viziato: in questi mesi ha scoperto persino come si arriva nella periferia di Roma sud.

Il vero paradosso si sta consumando nel centrodestra, ovvero nello schieramento che nei pronostici dovrebbe vincere a mani basse. Gli anni di “Aledanno” sono ormai uno sbiadito ricordo: la coalizione nella Capitale sarà trainata dal fortissimo consenso di Fratelli d’Italia e in parte da quello della Lega, che negli ultimi anni è molto cresciuta in alcuni quartieri semi periferici. Quello che manca ai cosiddetti sovranisti è il candidato: la prima a dire no è stata Giorgia Meloni, che ormai punta a poltrone più prestigiose e sta già pregustando il sorpasso a un Matteo Salvini in lento ma costante declino; a seguire, dopo un lungo tira e molla, è arrivato il definitivo “no” di Guido Bertolaso, candidato che avrebbe raccolto anche un po’ di voto moderato (che non guasta mai): anche lui ha di meglio da fare.

I romani, dal canto loro, guardano a questi balletti sempre più incomprensibili con una certa indifferenza; sembra quasi che il nome dell’uomo o della donna a cui dal prossimo autunno andranno a rinfacciare buche, tombini otturati e gabbiani grandi come aquile reali in picchiata su cumuli di spazzatura sia cosa ormai marginale. E forse non hanno tutti i torti.

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