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Natale a teatro, dalle Alpi al Burlesque
Ho pensato che il clima santo delle sante feste fosse l’ideale per provare sensazioni diverse rispetto al solito. Mentre la città impazzisce di shopping e l’intellighenzia capitolina ancora si interroga sulla natura e gli esiti del Natale in casa Cupiello versione Latella, osservato e discusso come fosse un “marziano a Roma”, per quel che mi riguarda ho giocato il tutto per tutto, inviandomi a veder spettacoli che mai avrei creduto. La prima di queste esperienze è stata passare un’ora con un gruppo di alpinisti sfegatati. L’occasione era esotica: la vita e la storia di Walter Bonatti. Per chi, pigro come me, detesta la montagna, gli scarponi, le discese, la sciolina e tutta la retorica della bellezza purissima delle vette, imbattersi nella figura leggendaria di Water Bonatti è come addentrarsi nella giungla misteriosa. Al Teatro Tordinona – piccolo spazio centralissimo che sta acquisendo nuova vitalità grazie a Dario Aggioli e al suo gruppo di lavoro – era programmato dunque In capo al mondo: in viaggio con Walter Bonatti, scritto da Federico Bario e Luca Radaelli, che ne è anche protagonista affiancato alla chitarra da Maurizio Aliffi.
Lo spettacolo ripercorre la vita e le gesta di quell’eroe popolare, mitico per gli alpinisti che affollavano la sala romana. Ha fatto di tutto, Bonatti: reporter e esploratore, affascinante e simpatico, compagno della bellissima Rossana Podestà, ha realizzato avventure memorabili in un’epoca in cui la tecnologia e i computer erano ancora ben lontani da venire. Si andava su con corda, piccozza e scarponi grossolani: scalavano il K2, questi eroi, solo con la forza e l’intelligenza. Lo spettacolo di Radaelli è un ormai “classico” teatro di narrazione: sostenuto da immagini evocative e documentative, l’attore solo in scena evoca e racconta, per la gioia di quanti, ancora oggi, hanno il mito di simili gesta. Con la mia pancia, non sento la fascinazione dell’impresa sportiva, della natura da scoprire o domare, della montagna come purezza e bellezza. Dunque ho potuto dedicare la mia attenzione alla tecnica narrativa, all’impianto drammaturgico: che, va detto, funziona bene, coinvolge, svela anche particolari inediti. E va dato merito dunque alla compagnia Teatro Invito, per aver messo in scena questa particolare storia privata e pubblica, parte integrante dell’immaginario nazionale, eppure un po’ rimossa. La nota su cui riflettere, semmai, è che gli stilemi del “teatro di narrazione” appaiono in generale ormai un po’ lisi, consunti dal troppo uso. Qui Radaelli è bravo, sapientemente tiene ritmi e tensioni, ma certi gesti, certi movimenti delle mani, certo ritmo e scansione del testo, la dialettica con la musica sono codici della narrazione italiana che necessitano di un generale rinnovamento. È incredibile quanto sia diventato “obsoleto” in fretta il “teatro di narrazione”, no? Ma gli alpinisti se ne fregano di queste elucubrazioni critiche, e tributano una ovazione sincera allo spettacolo.
L’altra sera, poi, animato dalla bontà natalizia, sono andato al Salone Margherita a vedere il burlesque. Il teatrino a due passi da piazza di Spagna è un meraviglioso gioiello liberty, passato troppo in fretta nelle fauci di una comicità televisiva di serie B. Adesso, con un guizzo creativo, dedica i lunedì a una forma di intrattenimento meno grossolana. Grazie al Micca club, il Salone ritrova lo smalto del Cafè Chantant, di quella tradizione popolare di comicità che ebbe in Roma inizi secolo scorso una vera capitale. Ricorderete Petrolini, con le sue gag; ma ricorderete anche quel celebre episodio del film Roma, in cui Fellini tratteggiava il declino del Varietà: quella comicità grassa, spesso bassoventresca, sempre ammiccante, in cui il pubblico aveva un ruolo feroce e destabilizzante.
Si respirava quel clima, al Salone Margherita: in apertura di Velvet Cabaret, questo il titolo dello spettacolo, tra cocktail e lustrini, si evoca Gastone, poi un quartetto jazz live inizia a pompare ritmi mentre un presentatore arringa la sala, tutta o quasi esaurita. Inizia così il cabaret, con il pubblico invitato a gridare: “più gridate, più loro si spogliano”, dice il presentatore. In effetti si spogliano, almeno fino a un certo punto: e sono brave, belle. Per quanto mi siano lontane le vette e le montagne, tanto sono devoto alle soffici volute del corpo femminile: dunque non posso non apprezzare la candida perfezione di tanta armonia. Le protagoniste al Salone Margherita hanno nomi d’arte, di fantasia, che non mi sono appuntato, ma ognuna ha un ruolo, un carattere, un modo. Lo spettacolo alterna anche brevi coreografie in trio (meravigliose a muoversi in quegli spazi ristretti) con canzoni del repertorio, affidate alla brava Vera Dragone (in questo caso, è il suo vero nome), attrice e cantante di livello, che avevamo già conosciuto nel fantastico gruppo Le Ladyvette. Ma, mentre proseguiva il burlesque, come Mastroianni che sia addormenta di fronte allo strip della Loren, anche io – con il dovuto rispetto – dopo un po’ mi sono annoiato e mi sono messo a pensare ad altro. Il burlesque ha attecchito in fretta, in Italia: ci sono anche scuole, stili, star, un apparato storico-retorico. Tutto, mi vien da dire, per giustificare e sdoganare il banale spogliarello, che dopo anni di femminismo eravamo riusciti a mandare in soffitta. Di fatto, sempre di mercificazione dell’oggetto-corpo si tratta: qui più “ironico”, più consapevole, addirittura più intellettuale, ma quello è. Le attrici si prestano a questo gioco, sanno di domare lo sguardo dello spettatore senza un minimo di volgarità né di eccesso, lo fanno bene e con estrema eleganza. Però rimpiango quell’arguto cafè chantant di Petrolini, il suo Fortunello o Nerone; rimpiango quel clima da Polvere di Stelle, un po’ zozzone e un po’ arruffato. Ci si spogliava anche nel Varietà, – «e levate a’ cammisella…», cantava Totò – ma quanta generosa, popolare, ingenua e poetica semplicità vi era in quei gesti…
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