Partiti e politici
Mafia Capitale e il silenzio di Zingaretti: c’era una volta la trasparenza
Con la decisione di non testimoniare nell’aula bunker di Rebibbia nel processo Mafia Capitale, avvalendosi della facoltà di non rispondere, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti ha sancito ancora una volta il distacco e il fastidio con cui la politica romana, soprattuto nel Pd, continua a vivere il lavoro della procura di Roma a distanza di due anni dall’esplosione dell’inchiesta Mafia Capitale.
Da una parte c’è la regione Lazio che siede fra le parti civili del processo. Dall’altra, la massima istituzione di quello stesso ente che preferisce non parlare, negando alla Rai il consenso per le riprese. Rifiutarsi di rispondere alle domande degli avvocati e dei pm, sia chiaro, era un diritto di Zingaretti, che, nonostante la richiesta di archiviazione della procura, continua ad essere formalmente indagato in un procedimento connesso, scaturito dalle dichiarazioni rese negli interrogatori da Salvatore Buzzi. Tuttavia le motivazioni rese nel comunicato distribuito ai giornalisti presenti, più che chiarire i motivi della sua decisione, hanno aumentato le perplessità.
Zingaretti scrive: “si è determinata una situazione paradossale in cui sarei stato chiamato a giustificarmi dalle false accuse mosse da Buzzi”, nonostante molti dei fatti in questione, come l’acquisto del palazzo della Provincia, non siano oggetto del processo Mafia Capitale. Poi, sempre nella stessa nota, dimentica di essere stato citato anche dai legali di Franco Figurelli, un altro degli imputati, che non lo ha mai calunniato e di cui non fa mai menzione nel suo comunicato, che prosegue con una promessa: “non mi sottrarrò al dovere della trasparenza e dal rendere pubblici tutti i fatti di mia conoscenza. Chiederò io stesso di essere sentito come testimone nel processo per calunnia conseguente alla mia denuncia di Buzzi”. Il governatore, insomma, parlerà e dirà tutto. Non ora, ma in un altro processo. Un processo che ad oggi, tuttavia, non esiste.
Eppure se c’era un posto per sgomberare anche le zone d’ombra della Regione Lazio, in cui continuano ad operare politici coinvolti nell’inchiesta, era proprio l’aula bunker di Rebibbia, dove in quest’anno, seppur malvolentieri, hanno testimoniato le più alte cariche del paese. Prefetti, alti funzionari e politici, come Giuseppe Pecoraro, Mario Morcone, Raffaele Cantone, Franco Gabrielli, Giuliano Poletti o Goffredo Bettini. Centinaia di testimoni, fra cui gli assessori regionali Rita Visini e Alessandra Sartore, che senza timore hanno affrontato a testa alta le domande, alcune volte imbarazzanti, dei legali e dei pm, fornendo in ogni caso un contributo decisivo per la ricerca della verità. Anche quando, come nel caso della deputata Pd Micaela Campana, che come Zingaretti avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere, i “non ricordo” hanno sovrastato le certezze.
Al contrario, Zingaretti, magari spaventato da un possibile passo falso, ha preferito trincerarsi dietro la norma, rinnegando per questioni di realpolitik, quello che era stato il suo manifesto politico con cui aveva vinto le elezioni nel 2013: la regione trasparente che non ha nulla da nascondere. Se, come affermava 3 anni fa, presentando l’Osservatorio Antimafia regionale, quella contro le mafie e la criminalità organizzata “è una battaglia che ci vede tutti impegnati: cittadini, istituzioni, forze dell’ordine, rappresentanti sociali e imprenditoriali”, perché ieri, nell’aula di tribunale dove si celebra il primo vero processo per mafia della storia di Roma, Zingaretti ha scelto la strada del silenzio?
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