Partiti e politici
M5S, a prescindere ma non troppo
Totò direbbe “a prescindere”, ma si troverebbe in difficoltà anche lui.
Perché parlare di M5S a prescindere dal resto dell’offerta politica italiana sembra diventato impossibile e al limite del proibito; sembra che non sia concepibile alcuna forma di critica ai pentastellati, senza incorrere nella risposta canonica “e allora tenetevi la vecchia politica”. La sensazione è quella che chi vuole liberamente porsi in maniera dialettica rispetto all’universo del non-partito debba necessariamente avere simpatie o trascorsi, se non interessi o inciuci, con la politica e il malaffare della seconda Repubblica, perché pare che la messa in discussione del dogma grillino comporti automaticamente la tacita adesione ideologica all’operato della classe politica che ci ha messo in ginocchio negli ultimi vent’anni. Certo, parliamo di una realtà che ha fatto dei concetti di alternativa e antitesi la propria ragion d’essere, ma il presupposto che mette perennemente sul tavolo l’assunto “o noi o loro”, è forse da superare, se i grillini vogliono, ora che sono diventati adulti, assolvere alla loro funzione in maniera compiuta e coerentemente con la propria ideologia.
Posto che M5S si propone, anche in virtù di un consenso elettorale in costante ascesa, non più soltanto come forza critica, ma come forza di governo, è probabile che una più serena accettazione del fatto che governare significa (anche) esporre il fianco alle critiche, potrebbe soltanto giovare a un sistema di pensiero, cui capo e fondamento sono i concetti per cui l’onesto non è attaccabile, il giornalista è fazioso, alle domande non si risponde, meglio incapaci che disonesti, c’è un complotto alle spalle, etc etc (i commenti della cosidetta “base” sono al limite dell’esilarante, a volte; ma quello è un problema di eccesso di democrazia sul Web e non riguarda solo M5S).
Ora, i risvolti di Roma delle ultime ore sono sintomatici del fatto che qualcosa non stia andando per il verso giusto. Cinque dimissioni pesanti in un solo giorno, una successione di tre capi di gabinetto nei primi miseri 70 giorni di governo, tanta confusione nella fase di costituzione della giunta, molti proclami ma pochissime delibere (nessuno aveva deliberato così poco dopo l’insediamento come la giunta Raggi, ma c’è il beneficio dell’estate di mezzo). Non bisogna drammatizzare, indubbiamente: è nelle cose che ci voglia del tempo per l’assestamento di una classe dirigente ancora vergine e inesperta rispetto ai tempi e ai modi della democrazia rappresentativa (e della burocrazia), ma di certo lo spettacolo a cui si assiste in capitale, fra correnti, mini direttori, veti incrociati, “raggi magici”, è degno della migliore Democrazia Cristiana anni 70, anche e soprattutto nel merito della tanto osannata “trasparenza”. Rispetto alla quale, con uno sguardo alle ultime notizie, qualche dubbio sorge. Se la nomina della Raineri fosse stato un problema procedurale, come ha sottolineato l’Anac, perché non sanare la procedura e confermare il capo di gabinetto? Perché affrettarsi a comunicare la revoca dell’ordinanza in piena notte? Che collegamento c’è con le dimissioni di Minenna (il super assessore al bilancio, deus ex machina voluto da Di Maio in persona) e con l’effetto domino che ha portato all’addio anche da parte dei vertici di Ama e Atac, le partecipate da risanare su cui si gioca il successo del mandato di Virginia Raggi? In definitiva, quali sono i rapporti di forza reali in Campidoglio? Cosa debbono aspettarsi i romani da questa stagione politica?
Credo sia proprio sul punto della trasparenza, al netto del fatto che i meriti della sindaca ci sarà tempo e modo per valutarli, che M5S abbia incappato il piede più volte, ora prendendo una storta, ora rischiando una frattura. Affidare a uno stato Facebook, alle 4.30 del mattino, la laconica giustificazione della messa alla porta di un ex magistrato anti corruzione (fra l’altro suscitando le ire dell’Anac, che si è vista “spubblicare” a sua insaputa), è, di tutta la questione attuale, il punto che più mi inquieta, nella forma ancor più che nella sostanza. E credo obblighi il movimento a una riflessione profonda sulla propria percezione, sia della politica, che di sé stessi dentro la politica.
Basterebbe fare pace col fatto che la politica (quella vera e soprattutto non corrotta) è una, da sempre, e vive le proprie fasi – anche di crisi – in maniera pressoché identica, a qualsiasi latitudine, in qualunque epoca storica. Basterebbe, ai pentastellati, ammettere che, amministrando città come Roma o Torino e candidandosi a guidare il paese, non possono più proporsi come l’anti-politica né essere un non-partito, perché nei fatti, e al di là delle tesi complottiste, dei blog e dei commenti della base, la sostanza storica, procedurale e fattuale del fare politica e governare, rimane quella, per loro come per tutti. In questo modo, con ogni probabilità, l’avvio non proprio entusiasmante e la crisi (probabilmente momentanea) della giunta romana potranno essere ricordate come un incidente di normale amministrazione, all’interno di una normale attività amministrativa (e per normale non si intende quella dei predecessori in Campidoglio, sia chiaro.)
Se, invece, i termini e la sostanza della questione romana continuassero a essere quelli che abbiamo visto, e se i cinque stelle continueranno ad arroccarsi sulle loro posizioni di intoccabilità e distacco dal reale, lo scenario sarebbe un altro. Infatti, se quanto visto fino a oggi a Roma è la cartina tornasole dell’offerta di governo a 5 stelle, significa che in Italia c’è un serio problema di rappresentanza politica. Un tripolarismo di forze buone per l’opposizione, ma di nessuna forza che abbia un progetto per il Paese credibile, serio e soprattutto affidabile, fra una destra che annaspa fra le macerie di una stagione finita e una sinistra che ha perso le ragioni stesse del proprio esprit.
Totò direbbe “a prescindere”, appunto; ma di una classe politica che guidi il Paese in maniera responsabile e trasparente, da quella, non possiamo più prescindere.
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