Ambiente

Le lacrime da smog fanno ridere, i tumori molto meno, vero?

28 Dicembre 2015

Sarà una quindicina d’anni che il mio unico mezzo di locomozione in città è la bicicletta. E a Roma, che non è esattamente favorevole. Tocca spingere, insomma. La bicicletta mi ha consentito uno dei più grandi sentimenti dei popoli civili: la libertà. Purtroppo non una libertà condivisa, ma solo la libertà di essere egoista, la libertà di fare ciò che altri non possono: un senso contrario, salire e scendere dai marciapiedi, zigzagare nelle code infinite, persino fare il pelo alle vecchiette (mai toccate neanche con un petalo della mia bici). Ma tutto questo, appunto, è libertà condizionata. Puro egoismo. Dunque, nulla che possa essere ricondotto alla democrazia partecipativa. È un gesto singolo, è una scelta singola, che nessuna istituzione comunale, cittadina, statale, ha mai agevolato. Nessuno ha mai considerato il ciclista come uno strumento per stare (tutti) meglio. Questo è il solo problema. Lo si è sempre considerato un ingombro. Un peso. Un pedaggio snob da pagare, perché altrimenti non sei abbastanza di sinistra. Un non-appartenente al tessuto urbano, un non avente diritto al suo pezzo di strada, com’è anche per il più imbecille e pericoloso degli automobilisti.

Un ciclista che oggi legge le polemiche sullo smog che devasta le nostre città ha diritto a un sorriso amaro. Sono questioni di cui ha perfetta conoscenza, le vive letteralmente sulla sua pelle, avendo scelto la sua condizione di ciclista proprio per evitare che la città, la sua città, cadesse sotto i colpi delle maledette polveri sottili. Per quelli con qualche anno di più, le targhe alterne sono perfino un retaggio sentimentale di un tempo che si credeva dimenticato ma che, invariabilmente, torna in epoche diverse. Ere geologiche scorrono, le targhe alterne rimangono. Il primo ottobre scorso, Ségolène Royal, ministro dell’ambiente francese, nel pieno della Legge di stabilità ha deciso che chi andrà al lavoro di bicicletta avrà 25 centesimi a chilometro. Nulla a carico dello stato, ma frutto di accordi aziendali. Capite la distanza siderale tra Paesi normali, normalissimi, e quel che resta dell’Italia? Il presidente dell’Istituto di Sanità, professor Ricciardi, sul Corriere dice due paroline abbastanza chiare: «Le malattie sono in aumento, basta soluzioni tampone. È a rischio la nostra salute, il governo dovrebbe intervenire con un piano strutturale».

Inutile girarci attorno, il problema sono le auto, per due terzi, e i riscaldamenti per un terzo. La questione auto è molto, molto, spinosa. Intanto esiste un enorme fatto culturale: quando parliamo di macchina, l’italiano si trasforma in un mezzo brubru, senza la sua bella vetturetta si sente dimezzato, la sua vita inutile, la sua organizzazione sociale fallimentare. Nessuno sminuirà mai il valore di un’auto, per molte persone è un mezzo necessario. Ma i governi, questo governo, devono disincentivarne l’uso. Come si fa? Semplice, si smette di considerarla un moloch, si smette di esserne subalterni, se non addirittura paggetti a corte, come nel caso dei governi passati con la Fiat e questo con la Fca, e si cominciano a immaginare città altamente condivise (auto/bici) come peraltro da tempi lontani sono tutte le capitali europee. E per un semplice e utile motivo, che porta la bicicletta a essere considerata non più un semplice attrezzo da passeggiatina ai giardini, ma un vero strumento di economia produttiva, trasporto quotidiano (casa/lavoro) di migliaia e migliaia di persone. Si smette, ad esempio, di piangere caldissime lacrime se il primo trimestre dell’anno, rispetto alla stagione precedente, le vendite dell’auto calano e semmai si comincia a trattare con le case produttrici il pieno riconoscimento dell’auto elettrica, sia in termini di incentivo all’acquisto, sia in termini di ovvie strutture cittadine di “sopravvivenza”.  Da questo punto di vista, a questo Marchionne non abbiamo ancora sentito uscire una sola sillaba sull’auto elettrica, mentre ci propina con uno straordinario sforzo di fantasia creativa la «Nuova Tipo»!

Qui non si tratta di biciclette contro auto, sarebbe lotta tra poveri, e poi non c’è gara. Qui si tratta di battersi per una condivisione virtuosa perché è in gioco la nostra vita, la nostra salute, la salute dei nostri figli. Vogliamo farli partire con l’handicap di un probabilissimo tumore? Nella legge di stabilità ci sono soldi per le biciclette, il ciclista Delrio ci ha messo qualcosa del suo. Ma ci si ferma lì, manca totalmente il progetto. Un governo fa così: impone per legge la “bicizzazione” del territorio. Impone alle città una quota minima di piste ciclabili e non le lascia alla discrezione dei comuni o dei sindaci, ma le scrive e le determina per legge, altrimenti poi succede che quel finto ciclista di Marino si sciacqui la bocca con le due ruote ma nessuno le vede in città. Impone alle città uno sviluppo urbano che assegni pari dignità ai due mezzi, anzi, sino a quando l’inquinamento sarà a livelli pericolosi, le biciclette avranno la precedenza sulle macchine, che vuol dire semplicemente non subire passivamente l’ossido di carbonio (esempio tra i tanti: in attesa ai semafori, il diritto a star davanti alle auto).

Se vogliamo davvero strappare gli italici deretani dai sedili delle auto, sarà da metter mano ai trasporti, alle metropolitane, all’intelligenza urbana ed extraurbana. C’è da piangere appena metti piede nella metropolitana di Parigi, qualunque appuntamento tu abbia la fermata ti scaricherà a un massimo di cinquanta metri da tuo obiettivo. Sono stati degli extraterrestri a concepire quell’organizzazione sociale o ce la possiamo fare anche noi? Ma alla fine, poi, è sempre un fatto culturale, prima ancora che tecnico-organizzativo. Il possesso di un qualcosa purchessia, di una casa, di un’auto, di almeno un paio di telefonini, è parte della nostra sottocultura. Senza proprietà privata, l’italiano si sente uno straniero in patria.

(Foto di Daniele Testa, tratta da Flickr, Creative Commons)

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