Partiti e politici

La sensazione è che Roma non ce la farà mai

9 Ottobre 2015

Quello che resta è l’amarezza, una grande amarezza. Altro che festa e canti per le dimissioni di un sindaco. La conclusione peggiore della lunga sceneggiata romana è piazza del Campidoglio versione Curva da stadio. Da un lato i cori e gli striscioni (sic) di chi festeggia la liberazione di Roma, senza capire da chissà quale regime, dall’altro gli accoliti di Ignazio Marino, che invocano una resistenza con chissà quali scopi politici. Alla fine resta solo tanto rumore, che provoca un forte mal di testa da rimbambimento. Una cartolina perfetta della sensazione che prende forma: Roma resterà così com’è. Nel senso che non ce la farà mai a risollevarsi nonostante tutto il frastuono.

Sia chiaro: nessuno vuole giocare al tiro al bersaglio grosso, visto che la Capitale è l’argomento da prima pagina preferito. La critica senza pregiudizio è un atto d’affetto, non un gesto di arroganza.  Basta uscire in giro per la città e vedere quel che è. Alle fermate della metropolitana i tornelli vengono saltati a piè pari dai più agili o comunque aggirati, mentre nel gabbiotto c’è un dipendente Atac che “non vede”. Poi c’è la metro che non arriva e quando arriva è piena. La prima non la prendi, nella speranza che la seconda sia meno affollata. Ma poi è peggio. Ti rassegni e prendi la terza, anche se è uguale alle precedenti. E un po’ ti chiedi “Ma cosa penseranno i turisti?”.

Tutto questo sempre nella speranza che non piova, perché si sa “bastano du’ gocce” e la città vede moltiplicare i disservizi. Se domandi delucidazioni a chi gestisce il servizio, al massimo ricevi un’alzata di spalle come risposta. E poi ci sono il traffico, le buche che sono dei buchi neri, la sporcizia, le barriere architettoniche. Con la risposta stampata sul volto prima che fai la domanda “deve anná così”. Non c’è niente da fare. La rassegnazione è un tratto di una città che vede scivolare il potere al suo fianco e anzi quasi lo subisce, succhiandone quel poco di linfa che si trascina appresso in termini economici.

Del resto è sufficiente ricordare solo quel che è successo nel 2015. Roma è la città dei vigili assenteisti a Capodanno, degli scioperi a cadenza settimanale, quando va bene, e degli scioperi selvaggi, quando va male. Ed è solo un elenco di quel che il cittadino comune riesce a vedere, perché poi vengono scoperchiate pentole maleodoranti di corruzione, grande e piccola, di malavita stile mafiosa che in genere resta invisibile agli occhi della quotidianità. Roma è la bellezza abbacinante di un’epoca andata, con tutta la malinconia di una decadenza lunga secoli. È la capitale corrotta della nazione infetta raccontata 60 anni fa da Manlio Cancogni su L’Espresso. Appunto 60 anni fa, molto simile a prima. Giusto con nomi nuovi e problemi aggiornati. In tutto questo tramestio, una cosa andrebbe evidenziata: la denuncia dell’assessore dimissionario Stefano Esposito sul (mal)funzionamento dell’apparato amministrativo. Tanto da non potersi fidare di esso, nonostante l’incarico politico che ricopriva.

La sensazione, perciò, è che Roma non ce la farà mai. Non è il problema di un sindaco e di quattro scontrini, né delle prossime elezioni né tantomeno dei deprimenti cori al Campidoglio “Marino pagate er vino”. Certo, spero di sbagliarmi. Ma il discorso è un po’ più complesso: si parla di una degna Capitale di un Paese che avrebbe tutto per farcela. Avrebbe, appunto.

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