Roma

La Repubblica degli scontrini

10 Ottobre 2015

Nella mia vita pregressa facevo il dirigente. Compito mio, tra le altre incombenze, era di controllare le “tabelle di missione” (così si chiamavano da noi le note spese) ossia i giustificativi delle trasferte dei dipendenti. Costoro erano circa 500 in media (nelle 5 Filiali che ho diretto) e in tali Filiali si “muoveva” per ragioni di servizio una media di 100 satanassi al giorno. Ciò faceva sì che avrei dovuto verificare (sotto la mia personale responsabilità) circa 100 tabelle al giorno: biglietti dei mezzi pubblici, reali percorrenze chilometriche nel caso di utilizzo di mezzo proprio ai fini di rimborso benzina, pasti e congruenza di orari, ecc. Una cosa fantozziana, da diventare letteralmente pazzi.

Chi aveva varato la norma intendeva giustamente portare ai massimi livelli la responsabilità su spese per le quali è noto i dipendenti facevano la cresta. Ma il problema restava che il controllo “personale” di 100 tabelle al giorno che diventavano 200, 300 o anche 1.000 quando ti assentavi (si moltiplicavano come i secchi di Topolino nel film “Fantasia”) era totalmente ineseguibile alla lettera. Richiedeva, quando ti andava bene, dalle 3 alle 4 ore al giorno se intendevi fare un riscontro scrupoloso, altrimenti siglavi in calce nella speranza che tutto andasse a buon fine. Restava un lavoro da bassa contabilità se rapportato però a un ruolo “manageriale” come veniva spesso definito pomposamente da chi voleva farti pesare le tue presunte inadempienze su altri fronti gestionali.

Conscio che le alte sfere (per le cui spese in genere tali stringenti norme non valevano) ti potevano fottere, trovando proprio nelle “tabelle” il casus belli, la mia prima ossessione/preoccupazione, giunto in una sede nuova, era di trovare una persona di fiducia cui delegare il controllo scrupoloso di tutto il materiale allegato alle tabelle con l’imperativo categorico di essere implacabile verso tutti, anche i capoccioni, ossia i “capi servizio”. Questa persona diventava improvvisamente un’autorità, anche se di basso livello gerarchico, perché nell’atavico  miserabilismo italiano l’abitudine di fare la cresta sulle note spese era consuetudine inveterata in quanto notevole  integrazione di reddito se ciurlavi nel manico.

L’ultima mia delegata fu una segretaria, una efficiente signora cattolica, pia catechista,  alta e nodosa come un confessionale barocco intagliato nel legno antico del cattolicesimo lombardo che mai è stato uno scherzo per la coscienza,  e che si dimostrò di una borromaica severità contabile nel “tagliare” le voci di spesa che erano dubbie o incongrue o palesemente non giustificate, una specie di “rasoio di Occam” di computisteria alto-lariana, per me indimenticabile (grazie Signora!). Quando ghignando mi consegnava la pila di tabelle, che avrei dovuto dopotutto firmare, ci scambiavamo uno sguardo d’intesa: la sua “ferocia” e la mia tranquillità trovavano un equilibrio amministrativo perfetto all’insegna del motto della burocrazia austriaca: quod non est in actis non est in mundo. E io firmavo, firmavo, firmavo non senza  qualche brivido di soddisfazione misto ad apprensione perché con quella firma mettevo a repentaglio sempre e comunque la mia miserabile carriera di cane sciolto da ogni camarilla e cordata di potere.

A tutto ciò pensavo leggendo questo pezzo di “Roma fa schifo” dove si evince chiaramente che la storia degli scontrini di Marino è totalmente ridicola e scagionante per lui. Chiunque può arguire che Marino sarà stato sventato (ma non credo proprio a questo punto vista la sfilza delle cose da lui attuate e che gira in rete in 40 punti piuttosto circostanziati) ma su questo particolare elemento di incolpazione è stata  “Repubblica” a ciurlare nel manico.

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