Roma
La House of Cards renziana ha fatto fuori Marino: ora vediamo se conquista Roma
A Roma ci sono giornate che il potere te lo senti addosso. Ti si appiccica alla pelle come una maglia umida e non vedi l’ora che a sera arrivi quel vento, improvviso, a darti il brivido del mal di gola, della bronchite perfino, ma finalmente ti liberi da quell’afa che sta tutto attorno ed è così pressante da sentirtela anche dentro. Penserete tutti – è normale, fisiologico – al potere che sta nei palazzi della politica nazionale, in senso stretto o lato: le due camere del parlamento, Palazzo Chigi, i ministeri, la Cassa Depositi e Prestiti, le aziende partecipate dallo stato e quelle che lo erano fino a poco tempo fa. Certo, parliamo di questo. Ma prima, più vicino alla vita dei romani e degli italiani, parliamo di una dimensione più banale, brutale, infine tribale del potere. Parliamo di una politica che raccoglie file di voti, e le conta a migliaia ogni volta, nelle borgate e nei quartieri bene, tra i caldarrostari e i palazzinari, dai municipi dedicati all’abbandono fino a quelli rincoglioniti tutti i giorni dalla rendita dei turisti e del Vaticano. Parliamo di una politica fatta di uomini – piacerebbe aggiungere: e di donne, ma sarebbe una bugia che si inventa la parità di genere solo quando ci sono da dividere le colpe – sconosciuti fuori dalla Capitale, eppure molto più potenti di tanti inutili politicanti “nazionali” che imperversano in televisioni o su Facebook. «Parliamo di presidenti e consiglieri di municipio» mi raccontava con onestà un uomo “forte” del Pd romano qualche tempo fa “che dalla politica prendono poche centinaia di euro ogni mese, ma di fatto decidono su capitoli di spesa che sul territorio di competenza incidono per milioni”. I conti di quanto insensato e criminogeno sia l’ordinamento che permette, anzi pretende tutto questo, fateli voi. Parliamo, ancora, di una città che funziona da schifo e non da oggi, non da ieri, e neanche da due anni fa: al di là delle capacità di marketing e di spesa dei vari sindaci – molto diversi da loro, in molte cose, a cominciare da queste capacità e possibilità – Roma è una città lenta, distratta, aggressiva, piena di buche, difficile da guidare e maleducata da molti, molti anni. Solo che è la città più bella del mondo, e non ha mai contemplato di dover studiare e diventare ordinata perché, bella com’è, tutti la vogliono lo stesso. Capita a chi è così incredibilmente dotato dalla storia, dalla natura, insomma dalla fortuna: hai avuto così tanto che la voglia di lavorare non l’hai mai imparata.
La vicenda della decapitazione politica del sindaco democraticamente eletto Ignazio Marino, forse, non si capisce se non si guarda alla città che fino a ieri amministrava con questo grandangolo. Non si capisce di cosa parliamo, se non alziamo la testa dagli scontrini e dalle minuzie per capire in quale scacchiere un pedone vestito da Re si è trovato a combattere. Già, “il marziano”. La storia politica di Marino come politico romano è iniziata così e forse vale la pena, adesso che è verosimilmente finita, ricordarla brevemente dall’inizio. Un corpo estraneo per autoproclamazione mai smentita dai fatti. Uno che alle primarie per la candidatura a sindaco del 2013 sfidò David Sassoli (allora e ora europarlamentare Pd, dopo lunghi anni in Rai) e Paolo Gentiloni (allora già renziano e oggi renzianissimo ministro degli Esteri). Chi non conosceva la politica romana lo considerava candidato di bandiera destinato ad arrivare terzo. Chi la conosceva però avvertiva: «Guardate che dalla sua parte c’’è Goffredo Bettini», cioè il potente politico romano per definizione, quello che si inventò Rutelli mentre D’Alema lo sfotteva in pubblico, e vinse, quello che consentì a Veltroni di fare il fenomeno mentre D’Alema rosicava, e vinse, quello che capì prima che un mondo era finito e quello nuovo, che iniziava, portava il nome di Matteo Renzi: e non vinse, ma stravinse. E anche con Marino, c’era Goffredo Bettini. «Ma stavolta perde», dicevano in tanti: e invece no. Vinse le primarie con margine di sicurezza, sbancando nel cuore dei circoli di partito sospesi tra il passato che non torna e la contemporaneità che aveva già da un po’, a Roma e non solo, ma a Roma di più, la forma della regola senza legge, della forza senza diritto. “Mafia Capitale”, avrebbe detto poi, qualche tempo dopo, il procuratore della Repubblica in Roma Pignatone. Vinse le primarie, dicevamo, e dopo vinse anche le elezioni: chiuse con un colpo secco, dopo anni di malamministrazione e di peggio gioventù uscita malamente dai tombini, il tempo di Gianni Alemanno. La cui vera occasione persa, il cui vero vizio capitale – oggi vale la pena di dirlo, seppur per inciso, in una storia che parla d’altro e d’altri – è stato quello di non saper costruire e dare spazio a una destra nuova e con la vocazione di governo, che pure reclamava a buon diritto il proprio turno, a discapito di un Novecento finito da un decennio e di una città di bassifondi che, per l’appunto, ha continuato a squittire prima durante e dopo.
Marino che vince e diventa sindaco incrocia tanti umori, attraversa sparato, da buon ciclista, diversi incroci. Anche qui: un ripasso del tempo che fu è doveroso. La primavera che lo vede diventare sindaco ha, anzitutto, il sapore del pericolo scampato. Il terrore a Cinque Stelle aveva appena vinto le elezioni politiche: soprattutto, le aveva fatte perdere al Pd di Pierluigi Bersani. A tanti, anche accorti, anche introdotti, sembrava naturale che la minaccia grillina, dopo anni di brutta amministrazione post-fascista, fosse pronta ad azzannare la capitale alla giugulare. E invece le primarie e il Pd sfornano e ancora inconsapevolmente, loro malgrado, l’antidoto: e un impasto strano di politica di lungo corso e di aria nuova e fresca, di linguaggio non paludato e diretto che sfonda le barriere delle tattiche e le fa percepire come passate e inutili. Parla il dialetto della realtà, dopo anni di polverosi dubitativi necessari a chi – poverino – deve tenere insieme anime diverse e inconciliabili. Sì, stiamo parlando del Marino del 2013, ma vi ricorda anche qualcun altro, vero? Oggi fa ridere, assai amaramente, ma la Roma che tributa successo e scettro a Marino è la stessa capitale dello stesso paese che, proprio in quei mesi, arsa dalla delusione per troppi passati incuba il ciclone che di lì a pochi mesi spazzerà via il passato nel nome di Matteo Renzi. Sostanzialmente per le stesse ragioni: voglia di novità radicale, voglia di politica costruttiva, sfiducia verso il passato recente e remoto, rifiuto di avventure evidentemente immature e non pronte al governo, come i Cinque Stelle.
Si capisce subito che l’investitura è di quelle che pesano come una corazza di piombo. Non così resistente all’urto, ma certo assai gravosa, da portare. Tanto più se sei un marziano. Tanto più se, dovendo molto della tua storia a Goffredo Bettini e ad altri potenti della sinistra romana. Tanto più se, infine, qualche parola netta, in campagna elettorale, l’hai detta, e hai spiegato che porterai meritocrazia, mercato e competizione sul terreno di Roma. Che la capitale non sarà la rendita sicura di chi se l’è sempre comandata. Se hai detto che i poteri inveterati dovranno rimettersi in gioco e se, perfino, hai dichiarato battaglia a Francesco Gaetano Caltagirone. Il potere di Roma per eccellenza, un imprenditore straordinario per capacità, organizzazione, visione del business e del potere, e della lobbying. Niente da dire. Un uomo ormai vecchio, e senza eredi alla sua altezza, che non ha voglia di sfide esplicite. Proprio quella che gli porta Marino. Prima, in parole, quando lascia intendere che la sua era è finita. Poi, in opere, quando – tra il simbolo e la materia – apertamente punta su altri attori per lo sviluppo della nuova Roma. Il caso plateale è quello del nuovo stadio della Roma, affidato al gruppo Parsitalia guidato da Luca Parnasi, figlio dell’ottuagenario Sandro, già additato come nuovo cocco della sinistra romana di potere per aver realizzato il nuovo e costoso palazzo della Provincia voluto da Nicola Zingaretti. Su Il Messaggero, organo di stampa di proprietà della famiglia Caltagirone, partono bordate a Parnasi e a Marino dal giorno zero. Corsivi di prima pagina che sfottendo insegnano le buone maniere al “nuovo re di Roma”, Parnasi, per parlare in realtà al nuovo primo cittadino. Tanto che, a un certo punto, deve scendere in campo il vecchio Parnasi, Sandro, e rilasciare un’intervista al Corriere della Sera, pagine romane, per spiegare che non poteva credere che il suo vecchio amico Franco – Francesco Gaetano all’anagrafe – avesse dei rancori nei confronti di chi, come lui, da una vita lavorava e dava da lavorare. Tra interviste e incontri riservati tra patriarchi, un accordo di non cattivo vicinato forse si trova anche. Ma suturato un fronte se ne apre un altro, ed è perfino più sanguinoso, per il marziano che ancora si ostina a girare Roma in bicicletta. Che di colpo, forse, scopre che la politica è fatta di sangue e merda in generale: e figurarsi se l’impasto è più nobile, nell’antica suburra di Roma.
Già. Appena nominato, infatti, perde l’appoggio dei padri – Nobili? Ignobili? Così è, se vi pare – pronunciando una sillaba: “No”. Quelli che amano il sindaco spiegano che il monosillabo è rivolto alle “vecchie logiche”, ai nomi suggeriti per l’assessorato, ai famigli da piazzare oltre una certa misura, e così via. Per chi non lo ama e anzi lo tollera aspettando che sul suo cammino si paventi un buco in cui farlo cadere, invece, Marino dice “no” a ciò che è ragionevole, al compromesso della politica, agli equilibri che in una città come Roma esistono da qualche millennio: e figurarsi se basta la buona volontà e l’aria vagamente supponente di un epatologo abruzzese per cambiarli. Sapete cosa? Forse hanno ragione entrambi: che Marino è davvero uno per bene, come si dice, e non si sente vincolato a chi lo ha fatto vincere, foss’anche Goffredo Bettini. Epperò, con una storia che ha anni e potere, lire e euro a montagne alle spalle, e voti e non-detti che ci vuole un attimo a dire, devi fare i conti con realismo. Puoi farci all’amore, con Roma, e puoi farci alla guerra: ma in entrambi i casi, devi sapere che ci vuole il fisico. E l’epatologo no, il fisico non ce l’aveva.
Mafia Capitale, una delle inchieste più importanti della storia giudiziaria italiana dai tempi di Tangentopoli, arriva come una boccata di ossigeno troppo densa per un organismo ormai assuefatto ai miasmi che lo circondano. Racconta, al di là di un esito giudiziario ancora da scrivere, di una città non circondata, ma invasa dal tumore del malaffare. Di un’organizzazione malavitosa, gerarchica, capillare, in definitiva mafiosa, che i romani non hanno imparato dai mafiosi, dagli ndranghetisti, dai camorristi: ma che hanno “inventato” da loro, a propria immagine e somiglianza. Entra, quella Mafia autoctona romana così descritta dai procuratori, nei gangli vitali della città: fornisce servizi a basso costo, raccoglie i rifiuti, prende la forma di cooperativa, fa lavorare i carcerati e i disagiati, fa economia di costi, finanzia la politica e, insieme, la aiuta a spendere di meno e “meglio”, in epoca di risorse scarsissime. Naturalmente, quella politica invade e le porta voti, risorse, prime e seconde file, tanto che Ignazio Marino si trova mezza giunta indagate un consiglio comunale falcidiato. Ma può dire, a ragione, che per chiedere spiegazioni bisogna citofonare a quel Partito Democratico romano che a lui, al Marziano, lo ha tollerato se non subìto dal primo giorno, che lui davvero non c’entra e anzi, se qualcuno può dire di aver combattuto quella cricca, questo è lui. E, dati alla mano, su questo, ha proprio ragione, visto che ha evitato di rinnovare appalti dubbi e tutto quel che poteva ha raccontato e fatto raccontare a Pignatone. Conquistandosi, naturalmente, molti nemici e molto onore.
Insomma, da Mafia Capitale parte con nuovo slancio la storia politica romana di Ignazio Marino? No, sarebbe bello, ma non è così. Gli avversari sono tanti e cattivi, e stanno tutti in casa. E le capacità e i limiti del nostro, altrettanto, sono un fatto con cui fare i conti. Ascoltava poco prima, ascolta meno adesso. Sta di fatto che una sera di giugno, a ben pensarci appena quattro mesi fa, scende in campo con la cannoniera Matteo Renzi in persona, nel salotto old style di Bruno Vespa. Fresco della non-vittoria delle regionali, voglioso di puntare un nuovo nemico come da costume, innegabilmente abituato a metterci la faccia, Matteo Renzi spiega che Marino “o è ingrado di governare, o se ne va”. Insomma, non deve stare sereno: per spiegazioni e delucidazioni, citofonare a Enrico Letta, in prestito a Parigi, ma residente a Roma, quartiere Testaccio. Inizia un balletto per iniziati: un giorno i giornali spiegano che Marino se ne deve andare presto perché Renzi pensa che la debolezza del partito inizia dalla capitale malgovernata, un giorno tacciono perché vuolsi così colà dove si puote. E viceversa, e così via. L’altalena, ferma sul posto, ci conduce ai nostri giorni, e l’esito ormai lo sappiamo. Nel mezzo, raccontano, una guerra combattuta a bassa intensità dal renzismo di bottega affascinato da House of Cards. Innamorato perfino del giochino di potere che la serie rappresenta, forse, e come tutti gli innamorati incosciente delle distanze. Un “gioco” fatto di liste di giornalisti cui recapitare “la linea” su Marino e su Roma. Una partita che lascia sempre intendere il ricatto, meglio se sessuale, che Roma è la città del Papa – quel buonuomo di Bergoglio, che al Marino agonizzante la sua mazzata l’ha tirata – ed è anche la città di Marrazzo. Una partita giocata senza pietà e, apparentemente, senza un orizzonte preciso lungo cui disegnare il futuro, mentre il partito che sfugge di mano è affidato al commissario presidente e romanissimo Matteo Orfini, mentre il Giubileo che verrà viene consegnato al prefetto Gabrielli.
Già. Perché del Marino che se ne va goffamente, cadendo su due scontrini ai quali solo i poco avvertiti attribuiscono un’importanza fondativa, restano intenzioni e proclami, tentativi e fallimenti, coraggi e inadeguatezze. È vero: ha provato a rivoltare Roma. È altrettanto vero: per far fuori mafie e intrallazzi, poteri e palazzi, ci vuole altro, ben altro, che farsi trovare impreparati per la dabbenaggine di chi ha strisciato la carta di credito distrattamente un paio di volte di troppo. Ben altra stoffa, ben altra stazza, ben altra sapienza politica. Ci vuole ben altra cattiveria, nella suburra, e a chi lascia intendere con la cattiveria del ricatto bisogna poter sorridere cattiveria e ricatti peggiori. Non è cinismo, ma realtà inveterata. Solo che adesso inizia il domani di Roma. Matteo Renzi ha iniziato il percorso, non sappiamo quanto lo abbia controllato e guidato, ma non possiamo non imputarglielo, visto che così parlò, e chiaramente, appena alla metà di giugno. La fine di Ignazio Marino come sindaco, dopotutto, se l’è intestata lui. Come se non fosse un suo compagno di partito. Come se non fosse un’amministrazione che nasceva – dicevamo – dalle sue parti. Adesso la palla la tiene in mano lui. È la sfera fangosa in cui sguazza una città meravigliosa e moribonda, celebrata e malfamata. La butta sul tavolo di elezioni amministrative – quelle del 2016 – già rischiose, in un’Italia ribaltata, che racconta di una bellezza sorridente e realizzata che ha per capitale Milano, mentre Roma è melma maleodorante e che imprigiona.
E questo futuro, che rifiuta il passato recente grazie alla minaccia, al ricatto, al gioco di potere, ha insomma la forma dell’avventura. Un’avventura che quest’epoca politica, quella di Matteo Renzi, cerca spesso come se fosse il suo terreno naturale, come fosse – perché è – il gioco più congeniale. In questo caso, l’avventura ha la forma informe di Roma. Uguale sempre a se stessa, e però capace di adeguarsi al tempo e al futuro inventandosi nuove materie, nuove espressioni del potere, della politica, del ricatto, perfino della mafia. Fino adesso, il nuovo potere renziano ha conosciuto e domato un branco di senatori e parlamentari già docili di loro, vogliosi di obbedienza in cambio di permanenza. Roma non sta lì, sta là fuori, tra i palazzinari e i caldarrostari, i ricattatori e i mafiosi, le attricette e le festicciole. Il conto lo chiedono tutti, ed è salato. La città eterna che ha preso a schiaffi Marino non è gentile con nessuno.
Con nessuno, Matteo: con nessuno.
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