Arte
La Galleria Nazionale non è più un museo
Cosa succede a ribaltare un museo? Ci ha provato Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, con un allestimento chiamato “Time is out of joint”, che mira a scardinare la cronologia tradizionale attorno a cui è organizzata l’esposizione delle opere, aggregando i pezzi per libere associazioni. La Collu è uno dei venti direttori chiamati dalla Riforma Franceschini a rilanciare il sistema museale italiano, di cui la Gnam rappresenta una delle criticità, con appena 137mila visitatori l’anno-questo il dato 2016-che la relegano impietosamente alle spalle del Castello di Racconigi, della Rocca di Gradara o di Villa Pisani a Stra, al quarantaseiesimo posto nella graduatoria per numero di ingressi dei musei e monumenti statali.
L’idea alla base di “Time is out of joint” (il titolo è una citazione dell’Amleto) è quella di uno “sfasamento temporale” applicato a tavolino. Una licenza temporanea (l’allestimento durerà sino all’aprile 2018) che consente di operare una selezione tra gli oggetti artistici che fanno parte della collezione della Gnam, e che sino a oggi sono sempre stati esposti secondo criteri storico-artistici e museografici tradizionali, privilegiando rigore scientifico e didattico. La natura stessa di luogo deputato a rappresentare i percorsi dell’arte moderna e contemporanea (si tratta dell’unica galleria statale che assolve a questa funzione) ha probabilmente contribuito a inibire anche nel recente passato una riflessione sull’evoluzione di quella che viene chiamata “museum experience”, e che è oggi al centro della sperimentazione di direttori e curatori delle maggiori raccolte pubbliche e private. La Gnam è ancora molti il luogo di Palma Bucarelli, la storica direttrice e sovrintendente che ha guidato l’istituzione di Valle Giulia dal 1942 al 1975, e che, grazie a una serie di clamorose acquisizioni, a partire dai “Sacchi” di Burri, ha avviato in Italia il dibattito relativo al superamento del realismo attraverso l’astrattismo e l’informale. L’allestimento e l’idea stessa di museo di arte contemporanea hanno finito per cristallizzarsi attorno al contenitore immaginato nelle stanze del palazzo di Cesare Bazzani dalla Bucarelli, con l’appoggio di Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi. La Gnam è il luogo della mostra su Burri del 1959 che generò persino delle interrogazioni parlamentari, o di quello del 1971 su Piero Manzoni per cui la direttrice rischiò il posto. Fatalmente, come tutti i luoghi troppo carichi di storia, ha finito assopirsi sulle proprie certezze, su di un montaggio della collezione che sembrava immodificabile, e su di un’attività di mostre temporanee di grande qualità filologica e nessuna intenzione di apertura verso il grande pubblico.
La Collu è intervenuta consapevolmente su questa materia e storia con la grazia di una grandinata. Nel testo di presentazione di “Time is out of joint” parla di un tempo “che va ricomposto” e “messo al diritto”, citando Jabes, Benjamin e la “temporalità plastica” del Bosone di Higgs. In realtà ha riorganizzato la collezione secondo quattro grandi set, ciascuno dei quali funziona più come una mostra che come un museo. La prima sensazione visiva è quella dello svuotamento dello spazio. Il patrimonio della Gnam consta di circa 20mila oggetti. Il nuovo allestimento mira esplicitamente a rimarcare la monumentalità, e dunque i pezzi “fuori scala” prendono la scena, dai teleri ottocenteschi delle battaglie di Michele Cammarano a quelli simbolisti di Giulio Aristide Sartorio, dai “32 mq di mare circa” di Pino Pascali all’ “Ercole che scaglia Lica” di Antonio Canova, sino al pannello 3×12 metri di Giuseppe Penone, mentre a essere sacrificata è la “profondità orizzontale” della collezione, in grandissima parte relegata nei depositi.
Lo spettacolo prima della chiarezza storico-critica, d’accordo. Sulla scorta di quanto avviene nei grandi franchise museali (pensiamo al modello-Guggenheim, per come l’ha messo a punto Tom Krens, da Bilbao a Las Vegas), la didattica è azzerata, superata da una serie di percorsi simultanei, costruiti per richiami linguistici di volta in volta basati su citazioni, consonanze, contrasti, come se le opere d’arte fossero oggetti sintattici, se non figure retoriche. C’è per esempio una stanza dedicata ai gessi, appoggiati su un grande tavolo, e sorvegliati dalle silhouette di legno dell’ “Ultima Cena” di Mario Ceroli. Non è la giustapposizione di due opere: è una vera e propria installazione, frutto di un’intenzione artistica del direttore.
É forse allora il caso di farsi qualche domanda intorno alle ragioni di fondo della Riforma Franceschini. Se l’obbiettivo è portare più pubblico nei musei, generando maggiori introiti, e lo strumento con cui questa finalità è perseguita è una rivisitazione dell’esperienza che si compie all’interno di un museo, è legittimo che il contenuto di novità sia funzione dell’estro dei nuovi direttori? Al modello del manager-conservatore, profilato dal ministro, si va rapidamente sostituendo quello del direttore-curatore. Il caso della Collu, indipendentemente dalla qualità degli esiti, è sovrapponibile a quello del canadese James Bradburne alla Pinacoteca di Brera, che promuove quadri di provenienza mercantile al confronto diretto con i capolavori della raccolta milanese, come nel caso della “Giuditta e Oloferne” di scuola caravaggesca che, in virtù dell’accondiscendenza del direttore della Braidense può ora fregiarsi del titolo indebito di autografo, o a quello di Eike Schmidt, che si appresta a trasformare il Corridoio Vasariano degli Uffizi in una galleria di marmi antichi. Nello specifico dell’operazione della Gnam c’è però un elemento in più, la tendenza alla trasformazione del curatore in un artista, in grado di operare su archivi e depositi con lo scopo di generare una propria mostra, in cui gli oggetti siano funzione di una narrazione individuale e non testimonianza di un linguaggio universale. É il modello sdoganato da Massimiliano Gioni alla Biennale di Venezia del 2013 con la mostra del “Palazzo Enciclopedico”, che raccoglieva opere in grado di visualizzare l’idea di conoscenza. La Collu ha scelto come oggetto il tempo e la possibilità di rimontarne le sequenze in maniera non cronologica. L’operazione può essere affascinante, ma apre a un approccio verso il materiale museale dove la rappresentazione della storia e del suo senso come sedimentazione non ha più valore. Il prossimo direttore-curatore potrà legittimamente chiedere di fare altrettanto, e i reperti artistici della collezione diventeranno oggetti narrativi, indifferenti alla loro vicenda di documenti. Altrove la riflessione su come innovare l’esperienza che si compie dentro i musei si è concentrata sulla fruizione, a partire dall’innovazione tecnologica, e sulla possibilità per ciascun visitatore di costruire un proprio percorso, attraverso i dispositivi digitali, le app e l’idea di archiviare durante la visita una serie di contenuti riorganizzabili secondo i propri interessi, come parti di un blog; è quanto fa, per citare uno degli esempi di scuola, il Cooper Hewitt Museum di New York, una delle istituzioni all’avanguardia nel rinnovamento dei consumi culturali attraverso l’interazione e la multimedialità. L’allestimento della Gnam s’inserisce invece in un altro filone, tutto italiano, che vede il protagonismo curatoriale, e dunque il “genio”, al centro. In una città ripiegata sulla propria immagine come Roma può sembrare una rivoluzione, ma è solo lo spirito eternamente ritornante del barocco, con lo spettacolo che prevale sul senso e la rappresentazione sulla storia. E forse piace proprio per questo.
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