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La Damnation de Faust: la rivincita di Roma su Milano
Al tavolo di un ristorante, dopo teatro, parlando con una garbata signora romana:” La Raggi stava bene alla prima vestita con l’abito di Mariotto. Le critiche ci stanno perché i Cinque Stelle hanno sempre criticato tutto e tutti, a partire dalla presenza delle istituzioni alle serate di gala, ma il sindaco di Roma deve pensare a riempire le buche, a scacciare i sorci, ma deve pure essere un po’ presenzialista, o no?”.
La signora che di mestiere fa il dottore commercialista e nel tempo libero adora viaggiare, ha centrato il punto: Virginia Raggi non poteva mancare alla inaugurazione della stagione lirica della città che amministra, e che abbia presenziato con stile, valorizzando il suo essere una graziosa e giovane donna, i romani l’hanno apprezzato.
Del resto, almeno quest’anno, la sfida fra Prima della Scala e Prima del Costanzi se l’è aggiudicata, contro ogni previsione della vigilia, l’acciaccata capitale che rifila un bel cappotto al capoluogo meneghino e sono soddisfazioni, come quando la secchiona della classe prende un bel 5 e se ne torna rossa rossa al banco.
La Scala ha alzato il sipario per Sant’Ambrogio con una Andrea Chenier sempre d’effetto ma tradizionale come il panettone Cova, in cui solo la presenza di Anna Netrebko, star internazionale di prima grandezza, è risultata bastevole a garantire un rassicurante successo. Senza rischi insomma, ma anche senza sussulti.
Lo stesso foyer è apparso poco pimpante, come se risentisse del clima generale di fine legislatura, come quando per capirci, si decide di non fare la cena aziendale a Natale, ripiegando su un aperitivo con scambio di auguri. Breve, efficace, necessario, ma soprattutto indolore.
Roma, che ormai pare ovunque destinata al “non aver più nulla da perdere” perché tanto peggio di così ci sono solo le piaghe di Egitto, o l’abbattimento di Spelacchio, ha invece rischiato eccome mandando in scena La Damnation de Faust di Berlioz, opera romantica, scarsamente rappresentata, più spesso solo suonata, per la regia di quel genio visionario e visivo di Damiano Michieletto e del suo altrettanto geniale scenografo Paolo Fantin.
Basta farsi un giro sui gruppi Facebook che parlano di lirica per capire quanto in Italia il “tempo futuro” sia ostico da declinare, anche quando si parla di arte e quanto Michieletto, e il suo eroico tentativo di portarci fuori dall’ottocento, siano oggetto di critiche feroci.
Per molti melomani infatti il regista dovrebbe scomparire e limitarsi a seguire il solco tracciato nei secoli da autore ed esecutori in una sorta di coazione a ripetere che vuole l’arte come fuga dalla realtà, estetismo esasperato e sganciato dalle umane sventure.
La Damantion di Faust in programma a Roma fino al 23 dicembre, nega questa impostazione asfittica fino alle radici, ribaltandola.
Faust è un adolescente dei giorni nostri, trasandato e già consumatore di antidepressivi che vive una vita di solitudine e isolamento, subisce atti di bullismo a scuola, e seppur giovanissimo, rimpiange la spensieratezza dell’infanzia.
L’amore per Margherita è pura proiezione adolescenziale cui ostinatamente delegare la soluzione di un mal du vivre che forse,per sua natura, non può essere guarito perché effetto collaterale della vita stessa.
Mefistofele lo sa, e l’inganno architettato ai danni del povero ragazzo sfocia nella sua morte che, in definitiva, è l’unica libertà dai tormenti concessa anche se ottenuta fuori dalla vita cosciente.
In una scenografia che da bianca, pulita, asettica come una stanza di ospedale, muta progressivamente fino a diventare nera è spaventosa, con colate di pece vischiosa che paiono sgorgare davvero dalla Citta’ di Dite, i cantanti sono chiamati a performance attoriali straordinarie, ove la voce non può andare per la sua strada ma deve sempre intonarsi con la mimica il gesto, lo spazio e il tempo della narrazione.
Pavel Cernoch ci regala un Faust dolente e tormentato eppure sempre elegante, deliziosamente sospeso tra elegia e oscurità, quella oscurità affascinante e nel contempo respingente che un superbo Alex Esposito (Mefistofele) incarna ( e mai verbo fu azzeccato). Classe 1975 questo giovane basso ormai acclamato nei teatri di mezzo mondo, fornisce una lectio magistralis di cosa sia la versione 4.0 del recitar cantando.
Come Micheletto si ispira al cinema di Malick (The Tree of Life) e Lynch (Mullholland Drive) per la sua regia, contaminando, per i detrattori, “profanando” la musica con altre muse più triviali e pedestri, così Esposito non si limita a cantare da par suo, con i colori che solo lui ha, ma giganteggia come attore, ambisce a carpire l’anima di tutto il pubblico e non solo del povero Faust e ci riesce con sguardi ammiccanti, movenze da satiro danzante, con un istrionismo che non siamo proprio abituati ad associare al bel canto. Il diavolo veste un antinomico completo bianco e due polacchini pitonati, balla la dance, suda si sporca e ti tenta inesorabilmente, sensuale e ferino come la nostra più negletta natura.
Al termine dello spettacolo, in un crescendo emozionale fortissimo che termina con la vittoria di Mefistofele sulla anima straziata di Faust, viene improvvisamente rispolverata la tradizionale categoria della catarsi, e una preghiera di un coro statico e per tutta l’opera incombente, ci riconsegna la serenità che credevamo davvero smarrita.
Ha fatto bene Virginia Raggi ad andare e ad indossare l’abito più bello perché quando Roma vince (e di recente non capita quasi mai) bisogna fare festa perché vinciamo con lei un po’ tutti noi italiani.
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