Roma
In morte di Roma, passando per la festa dei Casamonica
Sul materasso dove cadono, lievi, tonnellate di petali di rose non c’è Meva Suvari, nuda con il suo sorriso malizioso di «American Beauty», sognata da Kevin Spacey in nome di tutte le fantasie erotiche del pianeta, ma il corpaccione statico e definitivo dello zione Vittorio Casamonica inondato da un trilione di fiori caduti direttamente dal cielo dove volteggia un elicottero affittato alla bisogna e l’immagine, se permettete, è degna assolutamente di un Sam Mendes nella sua forma migliore. E se i petali di rosa sono comunque solo un particolare, ancorché significativo, di un funerale che farà storia, la vera rivelazione è che i funerali sono stati due e in un’unica soluzione, essendoci effettivamente un morto (ancora) in carne ed ossa, cioè il Capo del clan medesimo, e insieme a lui anche l’accompagnamento funebre della Città Eterna, che si consegna a un aldilà farsesco e drammatico nell’ultimo atto del signor Malavita.
E tutto fila perfettamente liscio in una giornata che nessuno potrà più dimenticare, dove cocchi e cavalli si uniscono alle Rolls, avvolti in una nuvola musicale che intona al Padrino e se pensavate – ingenui e anche un po’ sprovveduti – che tutto questo appartenesse al circoletto chiuso di Scampia, “scetateve guagliune ‘e malavita” perchè è anche ora di finirla di proteggersi sempre con Napoli e le sue fiction costruite a puntino. Nessuno, in fondo, ha il coraggio di dire che Roma è peggio, molto peggio, perchè purtroppo qui in questa città ci sono troppe cose straordinarie e sacre e meritevoli d’attenzione per tutti i cristiani che ora guardano a Bergoglio e che macinano migliaia di chilometri solo per avvistarlo piccolo piccolo a una finestra di piazza San Pietro, Lui stesso se ne renderà conto, di non potersi trasformare in una copertura celeste di una città che si è fatta immonda e che non ha rispetto di sè. Gli chiederemmo di andarsene, se solo (si) potesse, di emigrare, di trovarsi due camere e cucina magari in un luogo di vera sofferenza, chè la sua, nel vedere Roma in questa condizione, dev’essere molto intensa.
E la nostra, di sofferenza, nel vedere Roma svillaneggiata così, a che punto sta? Sicuri, siamo sicuri, d’aver ormai raggiunto quel cinismo per cui tutto tradizionalmente passa e va, o basta un cielo terso, quella tramontana killer, un lungotevere rosa e noi ci disponiamo subito in posizione di debolezza, a gambe divaricate come i pupi nella carrozzina? I Palazzi ci hanno forgiato. Sappiamo bene con chi abbiamo a che fare. Nel palleggio politico che si è messo in moto dopo il funerale più straordinario di Roma moderna, rivediamo perfettamente la nostra cara, vecchia, Italietta. È un meccanismo talmente oliato, talmente perfetto, che non servono rammodernamenti costituzionali, non servono giuristi, non serve neppure riccorrere a Verdini, ed è tutto dire, per certificare che tutto è perduto. Il prefetto Gabrielli, interrogato sulla vicenda, ci dice, dice a noi cittadini che vorremmo sapere, che lui non ne sapeva una beata mazza di questo funeralone di complemento. E che adesso si informerà. Si informerà di cosa, di come si sente la sacra salma a esequie compiute? Ma il colmo non è neppure questo, perchè tutto è avvolto in una comicità tragica che spingerebbe a trascinarsi a terra dalle risate, ma il gran premio della montagna lo vince quello scalatore che per primo interroga l’Enac, l’ente che governa il volo, chiedendo conto di quell’elicottero che spargeva petali di rose sul Tuscolano. E quelli, serissimi, gli danno le coordinate di un non meglio identificato trabiccolo a pale, che aveva tutto il diritto di girare da quelle parti e sparare fiori all’impazzata sullo zione defunto.
Il parroco, di quella stessa parrocchia che negò i funerali a Welby, naturalmente si è detto incosciente di tutto, ha tenuto a rassicurare la cittadinanza che parenti e amici di zio Vittorio in chiesa si sono comportati benissimo. E questo, in fondo, ci consola.
Roma è morta e anche noi non ci sentiamo tanto bene.
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