Letteratura
Il ritratto senza speranza di Roma Capitale
Ho visto solo un quarto del corposo progetto Ritratto di una capitale, ideato da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri per il teatro Stabile di Roma. Un eventone, composto da 26 capitoli creati su drammaturgie originali affidate a altrettanti autori, con il compito – non facile – di raccontare come sta Roma. Alcuni episodi mi hanno convinto di più (Stancanelli, Raimo, Celestini), altri meno, altri ancora per nulla. Lodevole lo sforzo dei tanti interpreti (oltre sessanta), anche se certi capitoli sembravano talmente abborracciati da risultare imbarazzanti: come quello che vede un improbabile Leo Gullotta alle prese con un noiosissimo testo, ancora tutto da sciogliere, di Francesco Suriano. Però, al di là degli esiti particolari, l’operazione offre spunti di riflessione notevoli che condenso in due pregi e due difetti. Partiamo dai primi. Merito indubbio è quello di una “chiamata alle armi”, uno “stringiamoci a coorte”, di cui fieramente si fa carico il teatro pubblico della città. Il direttore Calbi, in pochi mesi, ha ridato centralità al Teatro di Roma, lo ha reso subito un luogo aperto e vivo, dopo la museale gestione Lavia. E con Arcuri – che ha firmato la regia dell’intero progetto – ha cercato il coinvolgimento dei tanti artisti attorno a un progetto collettivo di forte impianto critico. Ecco il secondo merito: il tentativo di guardare alla città, alle sue contraddizioni e complessità. Ci piace molto questa feroce apertura al presente, questa “militanza” sociale e culturale. Che però, va da sé, ha un bel risvoltone. Ed ecco i difetti. Il primo è si insidia proprio nella caratteristica di “evento”: servono davvero i grandi numeri, con questo clima da maratona, per parlare di Roma a teatro? Non sarebbe – lo chiedo, forse sbaglio – più utile e profondo qualcosa che sappia durare, guardare anche al futuro? Insomma: cosa resta di questo Ritratto di una capitale? Mi domando se non fosse meglio investire seriamente su uno o due progetti, e svilupparli (anche economicamente) nel tempo. Invece la sensazione è che un simile afflato – si è detto condivisibile – sia giustificabile solo nella misura in cui è “eccezionale”. Ma una città devastata come Roma, anche questo ormai lo sappiamo, di tutto ha bisogno, tranne che dell’eccezionalità. Qui siamo, ormai, “all’effimero dell’effimero” – come diceva un amico giorni fa. Tutto passa, anche le opere-mondo come Ritratto di una capitale, e poco rischia di sedimentarsi. Il secondo difetto (ma ripeto: parlo con una percezione parziale, dunque fallace), è la “sindrome Pasolini”. Ormai PierPaolo è ovunque, anche al bar Necci del Pigneto – che pure il poeta frequentava ai tempi di Accattone – in veste di santino pop. Mi pare diffusa, insomma, una volontà borghese di guardare, con slancio che rasenta l’invidia, alla periferia: un po’ per senso di colpa, un po’ per effettiva solidarietà e militanza, un po’ ancora per desiderio. Sembra che l’autore di teatro contemporaneo (borghese, è inutile negarlo) corra dal centro ai margini, desideroso di raccontare quel mondo di cui pure non fa parte. Allora, ecco accenti rumeni, riccetti de borgata, barboni e teppistelli; ecco spacciatori e vecchi emarginati, trans e mignotte: va tutto bene, per carità! E anzi, in alcuni casi i risultati, l’ho detto, erano molto intriganti, dal momento che Roma è anche e molto abitata da quella umanità. Però pare che non ci siano alternative: non una parola sulla presenza del Vaticano a Roma; non una parola sulla invadenza del generone politico; non una traccia di quella piccola, media, grande borghesia che era seduta nella platea dell’Argentina. Mi si dirà: “scrivili tu, i testi, allora!” E avreste anche ragione. Però, sembriamo eternamente sospesi tra urgenza del momento e quel “pasolinismo” manierato, tra cronaca tv e ataviche corse per la Tuscolana o la Casilina: mi tocca registrarlo e ci penso. Dallo spettacolo esce, comunque, un ritratto davvero devastante di questa città. Violenta, aggressiva, abbandonata a se stessa o alla buona volontà di molti (che comunque restano pochi). Una città dove le rovine sono macerie, dove la speranza è bandita dal tirare a campare. E certo il palcoscenico – specchio fedele del mondo – anche stavolta fa la sua parte. Non fosse altro perché in questo racconto della città, manca proprio il teatro (sfiorato, nella delicata mise en abime, da Latini-Lombardi nel beckettiano testo di Elena Stancanelli). Insomma, il teatro a Roma, non c’è quasi più: resiste, ci prova, ma che fatica.E qui si apre un altro ragionamento. Calbi allo Stabile prova a ridare dignità al settore, ma qui non produce più nessuno, e chi lo fa, accetta condizioni davvero capestro. Siamo felici che sia arrivata, con la sua nota forza e determinazione, Giovanna Marinelli all’Assessorato alla Cultura: a lei il compito di restituire senso a un ruolo e un incarico che lo aveva perso nel tempo. Ma i problemi restano, e sembrano anche moltiplicarsi a valanga, con tratti che avrebbero fatto sorridere anche Ionesco. Partiamo dall’ultima notizia in ordine di tempo, per procedere a ritroso e ricostruire questa catena di irrisolutezze. Emma Dante ha dovuto sospendere le repliche del suo spettacolo in scena al Teatro Eliseo, causa sfratto dell’attuale proprietario. Dunque Eliseo chiuso e Operetta Burlesca cancellata. Ma inaugurerà la stagione 2015 del Teatro Valle, nel frattempo chiuso, dopo la gagliarda e vivace occupazione che l’aveva tenuto aperto per tre anni, nonostante tutto. All’Eliseo, la Dante era arrivata grazie al bel Romaeuropa Festival. Il quale Festival sta facendo un sentiero degno di una pattuglia di marines: ha dovuto abbandonare il Teatro Palladium, nel frattempo chiuso o quasi, e si è trovato a rischiare sull’Eliseo. Prima sì, poi noi (con gli spettacoli in cartellone spostati all’ultimo momento dalla Fondazione Romaeuropa in altri spazi), poi ancora sì, e infine no: polizia e ufficiale giudiziario sono arrivati a mettere fine a un contenzioso che si trascinava da mesi. La stagione della storica sala di via Nazionale, della proprietà Monaci, di fatto fallimentare – occorre ricordare che l’Eliseo era il teatro privato più finanziato dalla Stato – è stata scalzata dal nuovo proprietario, Luca Barbareschi, il quale a sua volta era già stato direttore dell’Eliseo, ma fu “licenziato”, anni fa, dai Monaci per una gestione non convincente. Ci furono cause penali e ora, “finalmente”, un bel ritorno al passato. Intanto il Teatro India, che era chiuso da mesi per lavori, ha riaperto uno spiraglietto, una saletta, dove il Teatro di Roma fa programmazione: ma resta un cantiere. Resta da dire del Quirino, che sembra essere passato di mano (a chi?); e del Vascello, che recupera un po’ di terreno. Poi ci sono i teatri “di cintura”, ovvero quei pochi, coraggiosi teatri davvero di periferia: erano una bella scommessa, ma l’impressione è che continuino a faticare a trovare una identità, complice una complessità di gestione che non aiuta. Faticano, ovviamente, anche i piccoli teatri, ma resistono con intelligenza: Orologio, Argot (uniti nel progetto Dominio Pubblico), Tordinona, Kopò e altri che certo dimentico. Hanno appena riaperto il Rialto Santambrogio e l’Angelo Mai, dopo sequestri e sgomberi. E poi ancora e ancora: Casa delle Culture e Stanze segrete, Brancaccio e Sistina, Cometa e Satiri, Sala Umberto e Olimpico… Avete capito nulla? Io no: tra teatri aperti e chiusi, abbandonati e disoccupati, ci si perde facilmente, in una diffusa autoreferenzialità e in un crescente provincialismo. Allora, il ritratto di una capitale non poteva non essere così cupo, amaro, deprimente: perché Roma è una città depressa. “Triste la città che chiude i teatri”, recita un comunicato stampa degli ex occupanti il Valle. E come dar loro torto? Vedo, attorno a me, generazioni di artisti che faticano come matti, che lottano per sopravvivere, che si ingegnano, si inventano, si danno generosamente per tenere viva la cultura teatrale. Affaticati, incarogniti, costretti l’uno contro l’altro in una guerra tra poveri che non fa bene a nessuno: cercano di campare, dignitosamente, facendo teatro, e pare sia una colpa. Ricordavo, giorni fa, gli anni della Piramide, dell’Alberichino e dell’Alberico, della Fede, del Teatro delle Arti, del Tendastrisce… Ripensavo a quella vivacità folle e entusiasta, anche negli anni di piombo. Erano migliori quei tempi? Assolutamente no. Oggi, a leggere i tamburini, contiamo 58 teatri in attività. Allora perché dobbiamo provare nostalgia dei tempi delle “cantine”?
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