Roma

Il ramarro cui ricresce la musica

27 Febbraio 2021

“Dentro le croste di vecchio intonaco, contro il cielo senza nuvole, nell’azzurro dilatato dell’ora legale”, si agitano centomila pensieri, ricordi, sensazioni, emozioni, nell’apparente inazione di quando sei chiuso in casa – come mille anni fa d’estate, quando eravamo bambini, assolati come ramarri; o magari come ora, che le strade sono spazzate via dal vento del nuovo giudizio universale. Impossibile fermarli e ordinarli, inutile cercare di fingerli mattoncini del sensato. Ve ne parlo, perché mi brucia dentro, e voglio che lo sappiate.

Parlo di “Mannaggia a me” di Piero Brega, l’artista che, come la lucertola della copertina del suo disco, ogni volta che gli tagliano una coda di suoni e canzoni, aspetta che ricresca e che nasca di nuovo. E ogni volta è un inatteso miracolo. Che se vi dico che è stato un precursore ai tempi della PFM e degli Area penserete che sia cosa dell’altro ieri, scuotendo la testa, ed invece Piero viene da ancora più lontano – dall’humus degli hobo da cui è nato Bob Dylan, e che, in Italia, un milione di anni fa, si divise in tante strade diverse, e lui le ha percorse quasi tutte, perché è uno scapestrato appassionato e traboccante di cuore.

Rughe di righe che ci riportano a ciò che è contraddittorio e solido come Pavese, Fenoglio, Elsa Morante, “sentire il male che c’è nel vivere quando non c’è più niente da fare”, ed alle note originali dell’allora cantante del Canzoniere del Lazio e che oggi, dopo tanto lavoro di tecnica e tanta ricerca tra le sonorità, è diventato un vero poeta, un musicista che piega la musica al senso delle parole urgenti che descrivono il rutilare di anni convulsi che è seguito al tempo in cui sembrava che avessimo tutto a disposizione e decidemmo di non controllarlo per non farci annoiare dalla vita.

Non sapete di cosa parlo, giusto? Non lo sapete, perché siete nati sconfitti e vecchi, non come Piero e quelli come lui, come me, che anche al buio correvano pazzi di sole, che anche fumando avevano i polmoni gonfi di libertà. Non lo sapete perché siete anche voi come tutti: “quel ragazzo sembrava dirmelo: occhi grandi, nero assoluto. Non mi conosci ancora e mi hai già venduto”, e quando ascoltate “In mezzo al mare”, la melodia e l’orchestrazione complessa (per la contemporaneità dolente) non lo legate all’onda su onda di Paolo Conte, ma restate sospesi, senza riferimenti.

Alla nostra età, tutto è una citazione, a partire dalla nostra vita quotidiana. Bisogna solo scegliere con cura il modello. Ci pensavo mentre sculettavo tronfio e lezioso due metri dietro a Piero, sul palco di un centro sociale di Abano Terme, e lui cantava la bomba di Johnny Dorelli. Pensavo: ma è giusto essere così discoli e leggeri? Piero cantava quella canzonetta con l’aplomb di Leo Ferré o Georges Moustaki, e non volendo rispondeva: certo, bisogna solo scegliere con cura la traccia su cui posi gli sci da fondo del tuo destino – e questo disco ne è la realizzazione appassionata, musicalmente seducente, sfrontata ed al contempo tanto accurata da mettere in soggezione.

Provatelo, questo disco. L’opera di “un ateo sui generis che non crede all’al di qua”… Comincia con “Il sorriso di un pensatore”, che è una ballata di oboe e inciampi che riporta al mondo musicale degli anni 70, quando Branduardi pervertiva in balsa e plastica ciò che Piero Brega e gli altri ragazzi del Canzoniere avevano costruito con legna di quercia, fulmini e faville, cornamuse e chitarre elettriche. Nell’introduzione lo spiega Giovanna Marini, quando chiede a Piero, tra il serioso e lo sberleffo: ma da quando tutti questi accordi di nona o di tredicesima? Lo so, non capite di cosa parliamo, ma non importa, tanto ascoltando non ve ne accorgerete, e vi sarà risparmiato l’accorato tamburellare di un vecchio, come me, che ascolta quel giovanotto di Piero e pensa a come non sarei mai capace di piegare le mie dita per spingere i tasti giusti e riuscire a suonare quella melodia.

Tante, troppe parole, per spiegarvi tre quarti d’ora di musica che oggi così non la sa fare più nessuno. Ascoltate “Mannaggia a me”, ascoltate quello che non è un poeta maledetto come Ciampi o Vendrame, ma un ragazzo che, con la serenità della pandemia e dell’amore ritrovato, ha costruito con pazienza un nuovo, bellissimo caleidoscopio di colori e canzoni che, come un vortice, gira intorno a “Marinaio senza mare” – ovvero quello che è un capolavoro assoluto, una delle più belle canzoni scritte negli ultimi 50 anni, un brano indimenticabile che vi regalerà, in Piero, quel fratello grande e dal ciuffo ribelle che sa fare le cose pericolose senza farsi male e facendole apparire necessarie e semplici. Quello che canta la normalità di tre barboni alla stazione, i veri eroi di un’epoca in cui essere veramente umani è oscillare tra l’incoscienza, il dolore e una stupescenza attonita e interiore.

Piero Brega, che come il Nino di De Gregori ha calciato il suo rigore, ed invece di prendere la porta, ha aperto il cielo. La notte gli si è attaccata al cuore, dice lui. Che bello.

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