Roma
Il grande raccordo anulare per le bici è una patacca di distrazione di massa
È una vita che giro in bici a Roma, qualcosa ho imparato. La prima è che l’automobilista romano ti considera un fastidio se non qualcosa in più, per quelli che ti vorrebbero effettivamente morto. Con questi qui, che “sgami” immediatamente perché ti avvicinano in modo protervo, adotto la rischiosissima tattica di apparire più protervo di loro, puntando la macchina con la ruota anteriore della mia mountain-bike come fosse l’ultimo obiettivo di un guerra giusta. Scambiandomi davvero per un kamikaze, e temendo soprattutto danni irreversibili per la carrozzeria, lorsignori optano per un più prudente disarmo bilaterale.
Questo per dire che Roma non fa assolutamente nulla, e da sempre, in favore delle due ruote e non è mai inutile rammentare che questa è l’unica città del pianeta dove il bike sharing è morto prima ancora di cominciare. Da quando è sindaco Marino, un ciclista che parrebbe sinceramente appassionato, niente è mutato sotto questo cielo e dunque ogni malizia è autorizzata. Alla spasmodica ricerca di una ciclabile purchessia, confesserò di percorrere quelle poche e striminzite che esistono anche quando devo andare in tutt’altra direzione, per il solo gusto, masochista e feticista in un tempo, di provare l’estremo godimento di abbandonare il manubrio, sorridere al mondo, e rilassarmi un po’. Per esempio via Cicerone (piazza Cavour), che chissà perché un giorno divenne miracolosamente ciclabile: la faccio incessantemente, taglio felice via Cola di Rienzo, e imbocco un altro mozzicone in favore di bicicletta che è Marcantonio Colonna, al termine della quale l’eiaculatio è eccessivamente precox dal momento che muore ogni speranza per il viandante in bicicletta.
È dapprima con un sorriso, dunque, poi con quella serena mestizia che accompagna le iniziative politiche, che ho accolto l’immaginifico progetto – denominato «Grab»: Grande Racconto Anulare delle Bici – presentato, al cospetto di assessoroni capitolini, da una collaborazione tra Lega Ambiente e VeloLove, associazione di appassionati delle due ruote. Leggiamo dal sito di cosa si tratterebbe: “Il Grab è il progetto partecipato per la realizzazione di un anello ciclopedonale di 44,2 km. che si sviluppa completamente all’interno della città di Roma. È un’infrastruttura leggera, low cost e ad alta redditività economica e culturale, una calamita per nuovi turismi, dai ciclo viaggiatori agli amanti del trekking urbano. Il percorso individuato, interamente pianeggiante, si snoda principalmente lungo vie pedonali e ciclabili, parchi, aree verdi, e argini fluviali (31,9 km., il 72% del tracciato). Altri 3,6 si sviluppano su marciapiedi che possono facilmente accogliere una ciclabile (…) altri 6,8 interessano strade secondarie e a bassissima intensità di traffico. Solo 1.900 metri sono congestionati da un intenso flusso di veicoli motorizzati…».
La chiave è tutta in quest’ultima frase: “Solo 1.900 metri sono congestionati da un intenso flusso di veicoli motorizzati”. Cioè a dire: solo un paio di chilometri sono effettivamente in città, dove invece le ciclabili servirebbero come il pane, dove la necessità vitale e civile di mettere in sicurezza i cittadini su due ruote sarebbe la priorità di un’amministrazione all’altezza, dove organizzazioni sociali degne di questo nome hanno la forza di scontentare oggi per ottenere un benessere più esteso domani. Invece, il progetto di un Grab è purissima autocertificazione estetica, è “stare a bordi” senza mettere le mani nel fango, è creare “un anello ciclopedonale… “ come “calamita per nuovi turismi”. Questi signori che discettano di bicicletta sostenibile hanno sicuramente girato l’Europa, dove in realtà le due ruote non sono più considerate solo come un mezzo turistico, da passeggiata, ma si sono trasformate nel tempo in un’opzione parallela ed economicamente efficiente alle macchine, un mezzo che trasporta centinaia di migliaia di ciclisti sui luoghi di lavoro. Oltre che il balocco di passeggiare per parchi e monumenti.
Questo anello ciclopedonale è la più realistica certificazione del fallimento delle politiche applicate alla bicicletta. Portarle altrove, farle girare al largo che non la città, “solo 1.900 metri” nell’inferno del traffico, una cazzatella, un attimino, giusto il tempo per capire in quale casino ci tocca di vivere. In Europa, lo sapete bene, hanno ancora la malsana idea di far circolare le biciclette in città, studiando il sacrificio condiviso tra pedoni, automobilisti e ciclisti. È prima di tutto una questione culturale, ancor prima che tecnica. E poi il ciclista vuole la sua città, vuole starci dentro, se capita fermarsi a uno scorcio e ammirare il terrazzo di una casa d’epoca, entrare rapidamente in una farmacia, dentro e fuori un ufficio, bere un caffè con la sua bella, salire dal commercialista e uscirne come al solito sconfortati. Insomma vuole vivere. Portarlo sul Grande raccordo anulare, tra parchi, aree verdi e argini fluviali, è gettarlo nella più cupa delle depressioni. È roba da complesso di inferiorità. Andateci voi sugli argini fluviali.
Devi fare login per commentare
Accedi