Partiti e politici

I taxisti sono il problema, Uber e la codardia politica non sono la soluzione

22 Febbraio 2017

L’ennesima storia in cui i torti si restituiscono in fretta, e le ragioni invece sono in cerca di autore.

Oggi che i taxi hanno ripreso a circolare – per la soddisfazione di quel 2% di popolazione che ne è fruitore abituale, con un’importante quota di politici e giornalisti tra questi – è forse necessario segnare qualche punto fermo. Riguarda il nostro passato, ben più lungo di ieri e dell’altro ieri, e il nostro futuro che purtroppo non arriverà domani.

I taxisti italiani sono una categoria che per lungo tempo è stata protetta dalla concorrenza, e per molte ragioni “esentata” da controlli e legge. La politica a vari livelli ha accettato, molti anni fa, la nascita di un mercato delle licenze che a monte erano state concesse a titolo gratuito. Alcuni, pochi, ottenevano e ottengono le licenze per “concorso” gratuito dai comuni e poi, però, possono cederle a titolo oneroso ad altri che vogliono subentrare. Aver consentito questo meccanismo, autorizzando la cessione tra privati, è stato uno dei peccati originali diventati insanabili perché oggi i tantissimi taxisti che hanno la licenza avendola strapagata (magari anche 200 mila euro) non possono accettare di vederla svalutata. Sia detto per inciso: sono cose che capitano nel mare aperto del mercato, per informazioni citofonare a chi ha comprato una casa ai massimo di mercato nel 2005 e ha dovuto o voluto rivenderla nel 2015. Ma andiamo oltre.

A rendere evidente l’insostenibilità del meccanismo è stato l’arrivo sullo stesso mercato di nuovi attori dotati, nativamente, di tecnologia, di buone idee imprenditoriali e di capitali. Il mix perfetto di quello che, nella storia, ha costruito sempre una base solida per i cambiamenti radicali di paradigma. L’aumentare di una concorrenza sostanzialmente non regolamentata, in una prima fase, e comunque difficilmente comprimibile, in prospettiva, ha esacerbato gli animi di una categoria che aveva considerato l’investimento iniziale, necessario per la licenza, come un capitale a reddito sicuro, di fatto una rendita garantita da un lavoro sostanzialmente privo di valore aggiunto. Una riflessione più attenta avrebbe aiutato a capire che Uber e i servizi di ncc sono solo una parte dell’erosione di quella rendita. Molto ha fatto la crisi, con conseguente compressione della capacità di spesa di fruitori abituali e di aziende. Sicuramente anche ha contribuito il diffondersi (virtuoso) del Car sharing e – dove funzionano, come a Milano – di nuove reti di servizi pubblici. Ma certo, un punto era e resta vero: aver consentito la nascita di un mercato delle rendite, aver sempre accettato di mantenerlo nel tempo, ovviamente ingrossandolo, in cambio di una rendita di tipo elettorale, è una colpa grave e riguarda la politica italiana, quella romana in particolare, ben più grave di quella di aver protetto il mercato con un numero di licenze che in realtà, almeno parzialmente e più per Milano che per Roma, è allineato con quello di altre città europee. Aver accarezzato l’idea di affidare a un gigante senza volto e con un’idea dei diritti ancora tutta da capire, come Uber, la possibile soluzione di un problema è poi una scorciatoia che non regge, proprio perché la grana non sarebbe nata e cresciuta senza le colpe delle pubbliche amministrazioni, e del legislatore.

È dunque chiaro che, per uscire da un vicolo cieco, la politica nazionale e quella locale, di qualunque colore, dovrebbe da un lato riconoscere gli errori di propria competenza e predisporsi a una soluzione che non può che passare da un negoziato serio; e dall’altro, proprio con questo obiettivo, dovrebbe mostrarsi inflessibile nei confronti di proteste inaccettabili nella forma, come lo è sempre l’apologia del fascismo o, peggio, la violenza fisica e materiale. Questi ingredienti, purtroppo, non li abbiamo visti nella cucina di Virginia Raggi, ma neanche in quella di Graziano Delrio e del governo nazionale. Speriamo che il prossimo menù li contempli, come serve contemplare la complessità in questi tempi complicati. È difficile, quanto indispensabile.

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