Partiti e politici

I dibattiti politici in tv. Un rumore di fondo emotivo

23 Aprile 2016

Ieri sera c’è stata la prima passerella televisiva dei principali candidati a sindaco di Roma, nello studio di Bersaglio mobile, programma di approfondimento di Enrico Mentana. Parlo di “passerella” e non di confronto perché sono intervenuti tutti e sette in solitaria, senza contraddittorio, se non quello del conduttore.

Ho rivisto l’intera puntata oggi per cercare di capire cosa può restare impresso nella memoria del pubblico (parlo di pubblico e non di elettori, volutamente) tra le risposte alle 89 domande complessive di Enrico Mentana.

Intanto bisogna considerare che ogni candidato ha avuto a disposizione tra i 15 e i 20 minuti e ha risposto a un numero di domande che oscilla tra 7 (Raggi) e 19 (Bertolaso). Raggi ha dimostrato di non avere i “tempi televisivi” tipici di chi fa politica da anni ed è andata un po’ “lunga” sulle risposte. Non è tuttavia il caso di Bertolaso, che è invece sintetico di suo ed è riuscito a rispondere a 19 domande in 16 minuti.

L’aspetto più importate da rilevare, tuttavia, è che su 89 domande solo 19 erano su problemi specifici della città; 12 erano genericamente sul programma e sulla squadra; 8 su partiti e coalizioni e ben 60 sul profilo del candidato (domande personali o relative al proprio posizionamento nel mercato elettorale), a conferma della forte personalizzazione della politica, sempre più dominante come fattore in grado di calamitare consensi e smuovere le opinioni, o meglio le emozioni.

E’ difficilissimo distinguere i candidati sulla base delle risposte su programmi e problemi concreti. Altrettanto difficile – eccezion fatta per Storace, Fassina e in parte Meloni – ricondurli ad aree politico-culturali ben definite. Resta, appunto, la distinzione individuale: biografie personali e performance televisive come driver dell’emozione pubblica. Quello è il motore del voto, oggi. E quella dinamica si riflette automaticamente nelle apparizioni televisive. Anzi, è una dinamica “figlia” della televisione, delle sue logiche (centralità dell’immagine, facce al posto di partiti, narrazioni al posto dei programmi, linguaggio ipersemplificato, storie personali e private di personaggi pubblici) e dei suoi tempi (istantaneità, brevità, slogan e sound bites).

Dalla trasmissione di ieri risulta che nessuno ha ancora una squadra – e dunque non è valutabile su questo aspetto. Solo Marchini ha chiuso il programma e ne ha portato una copia, ma non si è entrati in dettaglio se non nei rari casi di domande specifiche. E, come detto prima, a parte i “si” o “no” sulle olimpiadi e qualche posizione netta qua e là su qualche argomento definito, a fine puntata nessun cittadino sarebbe stato in grado di dire: “ora ho le idee più chiare. Quel programma mi piace. Quelle proposte mi convincono”.

Colpa dei candidati? No. Colpa del conduttore? Neanche. Si sono tutti adeguati al mezzo televisivo, che per inciso ha condizionato negli anni tutta l’offerta mediatica (giornali, radio e web non sono particolarmente diversi, anzi). Se Mentana avesse esordito dicendo: “pensate di rinegoziare i mutui per rientrare dal debito? E come?” Oppure “rifarete la riforma di Roma Capitale? Come convincerete Governo e Regione?” O ancora “Ha fatto una stima del fabbisogno per rifare il manto stradale? Come reperirà le risorse? Come garantirà che i lavori siano efficaci?” Domande (e relative risposte) del genere porterebbero l’audience di Bersaglio mobile a sfiorare i numeri negativi… In compenso ci informerebbero su cose concrete e complesse, ossia le reali attività e problematiche del sindaco di Roma.

Non si esce da questo trade off, inutile girarci intorno. Se la politica non si spettacolarizza e banalizza, in tv non ha alcuna chance di apparire. E, di converso, se i media provano a cambiare format e a informarci “davvero”, perdono quote di mercato a rotta di collo. Non ci divertono più e cambiamo canale in tempo reale.

La tv è intrattenimento, prima di ogni altra cosa. Se pensiamo di informarci seguendo questi dibattiti, è tempo sprecato. Se pensiamo invece di trovare motivazioni emotive per scegliere colui o colei che riesce a mobilitarci più di altri, allora può servire.

Usciamo però dall’ipocrisia. Informarsi stanca, come dice Ramonet, e costa tempo e fatica. Smettiamola di dire e di dirci che votiamo qualcuno per i suoi programmi o per le sue proposte specifiche. Non abbiamo neanche idea di quali siano, né eventualmente di quale sia la squadra che dovrebbe metterle in opera. E, verosimilmente, non ne avremo idea per tutta la campagna elettorale. Perché quest’ultima viaggia su altre frequenze. Facciamo prima a dire: “voto per Tizio perché mi sta simpatico” o “per Caio perché mi ispira fiducia” o “per Sempronio perché è onesto”, e così via. È pura percezione, epidermica e superficiale. Un rumore di fondo emotivo. Per il resto, è una delega in bianco. Se Tizio vincerà, che Dio ce la mandi buona…tanto ai primi tentennamenti lo rivestiremo col solito mare di insulti di chi ha tradito le nostre emozioni. E ricomincia la giostra.

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