Costume
Grazie alla paura (e alla tecnologia) ho ritrovato il mio adorato zaino
Cosa succede se, come oggi, perdi lo zaino con alcune cose fondamentali come iPad (e tastiera compatibile) e occhiali da vista, quelli per la lettura al computer? Succede che immantinente ti dai del coglione, ma essendo almeno la ventesima volta che succede spalmata su qualche anno l’autoflagellazione assume i tratti patetici del numero da cabaret e poco più. Superata velocemente questa modesta certificazione estetica, resta l’emergenza. Non hai più il tuo zaino e devi (devi) ritrovarlo. Il bicista ha un vantaggio: che può arrivare sui posti con una certa velocità. Ma prima di alzarsi sui pedali, come novello Cipollini all’ultimo chilometro, è indispensabile fare la conta dei posti frequentati in mattinata (bar, uffici, case private, postriboli e non è detto che i due ultimi non coincidano). Dove c’è un numero di telefono raggiungibile, è meglio chiamare. Al mondo c’è (ancora) un sacco di gente perbene e dunque se lo hai perso lì, loro te lo metteranno da parte. Se nessuno di questi signori ti dà la buona novella, sei sostanzialmente nella merda.
Oggi era una situazione di quest’ultimo tipo. Anche perché, prima di rilevare che sulle spalle non sentivo più alcun peso, non avevo girato che un paio di luoghi. Uno discretamente ameno: il bar che mi accoglie con estremo calore la mattina per la lettura dei giornali e che ho scelto appositamente sull’unica ciclabile di Roma (via Cicerone). L’altro, tristo come pochi, un ufficio/sottoscala dove ho firmato un paio di pratiche. Stop. Appurato telefonicamente che entrambi fornivano la versione più negativa – “no, da noi non c’è nulla” – , prendevo in considerazione l’ipotesi di entrare moderatamente in depressione. Del resto, spazi per clamorose novità non apparivano all’orizzonte, né, sull’onda emozionale, era il caso di esaminare a fondo il contesto sociale (che più tardi invece emergerà con estrema chiarezza). Ultima spes, il tratto tecnologico che in realtà poco mi appartiene, ma che sorge, ora qua ora là, quando debbo offrire a mio figlio l’idea di un padre ancora discretamente al passo coi tempi.
In piena agitazione, ho ricordato comunque quella favoletta secondo cui con un rapido ingresso in «icloud.com», esperite alcune formalità e solo se già attiva la funzione «Trova il mio iPad», avrei potuto tentare la fortuna. Non ricordavo ovviamente password e id Apple per cui ho ricostruito il tutto. Con altri due passaggi, sono arrivato miracolosamente all’ultimo miglio: ho schiacciato un “invio” e mi è apparsa la cartina di Roma! Confuso e felice, minuscolo e orgoglioso, si stagliava un puntino verde, che ho cominciato ad avvicinare sempre di più, sino a quando la cartina lo ha definitivamente e toponomasticamente affiancato a una strada. Diceva: «Via Avezzana, un minuto fa». Non ci credo, un minuto fa il mio zaino era ancora in via Avezzana (sede dell’ufficio che avevo già chiamato, avendone una risposta negativa. E allora?)
Saltato sul bicio ho pedalato senza respirare per qualche chilometro, il cuore in gola sino all’imbocco di via Avezzana dove mi sono accasciato davanti al palo al quale avevo legato la bicicletta. Ai piedi del palo, nulla. Ma alzando lo sguardo, la felicità: lo zaino era lì, spalmato come un gatto sul sellino di una motoretta. Lo avevo appoggiato lì per aprire la catena della bici e poi lo avevo dimenticato. Ma la tecnologia aveva vinto sull’uomo (ma l’uomo era felice d’essersi messo nelle sue mani).
Tutto questo racconto è pienamente e precisamente reale. Anche nella fibrillazione degli eventi. Un lieto fine insomma. Ma che nasconde una terribile condizione sociale. Quando è sopraggiunta la calma opportuna per esaminare gli eventi, ho calcolato il tempo in cui quello zaino era rimasto sopra quella moto: 3 lunghissime ore. Dalle dieci all’una, piena luce, pieno giorno. Dopo avere scartato l’ipotesi “culo di Sacchi”, oggi più modernamente rimodellato in “culo di Renzi”, ho compreso sino in fondo il vero motivo che aveva fatto sì che nessuno se ne impossessasse: la Paura. Una condizione diffusa, praticata, palpabile in ogni occasione pubblica. Che sconsiglierebbe a chiunque di prendere uno zaino sconosciuto, di aprirlo, di ravanarci dentro, di capire se c’è qualcosa di “buono” da sottrarre per poi abbandonarlo in un cassonetto. Solo qualche giorno fa, in un ufficio postale affollatissimo, ho lasciato lo stesso zaino incustodito per una trentina di secondi, forse un minuto, per consegnare un bollettino. Una signora, in evidente stato di tensione, mi ha avvicinato chiedendomi: «È suo quello zaino?» E l’addetta delle Poste: «Sa, questo è un momento di grande tensione, nei luoghi pubblici e affollati appena una cosa rimane incustodita scattano reazioni incontrollate».
Il mio zaino, in un altro tempo, in un’altra vita, avrebbe vissuto su quella moto forse per un quarto d’ora. Mezz’ora al massimo. Poi qualcuno ci avrebbe guardato dentro, per curiosità o con intenzioni malevole. Qualcuno si sarebbe preoccupato persino per il legittimo proprietario, avrebbe chiesto ai passanti se magari lo avevano visto, si sarebbe attivato per cercarlo lui stesso. In ultima analisi lo avrebbe consegnato al negozio più vicino. Oggi il mio zaino è rimasto tre ore in bella mostra. Io sono più contento così e sembra paradossale doverlo ammettere, ma un mondo governato dalla paura e senza più ladruncoli di strada lascia un segno amaro.
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