Fumetti
Gli impicci di Zerocalcare: o della santificazione del disagio
La serie Netflix di recente uscita Strappare lungo i bordi ha decretato il successo definitivo e assoluto di Zerocalcare nel nostro paese. Sui Social, la wave è partita immediatamente come uno tsunami di meme e citazioni in romanesco, si è gonfiata per qualche giorno e poi, come sempre accade, ha finito per morire sulle spiagge dello scrolling compulsivo. Con puntuale impulso d’emulazione, gli elogi sono fioccati copiosi, più per questioni di marketing e engagement che altro, mentre le critiche si sono limitate al solo dibattito sull’uso del romanesco. Nessuno si è soffermato su quello che sembra essere il vero punto debole di tutta la produzione fumettistica di Michele Reich: la santificazione del disagio.
Nei fumetti di Zerocalcare il protagonista delle vicende è Zerocalcare stesso e la sua vita quotidiana nel quartiere di Rebibbia. L’autore si disegna come un giovane fumettista disoccupato, preda di nevrosi e ansie, non risolto, perennemente impicciato, incapace di cucinare e nutrirsi decentemente, di stabilire rapporti sani con l’altro sesso e perseguitato dagli accolli: in parole povere, una persona inabile alla vita, per cui uno spoiler assurge a rango di catastrofe emotiva. Certo, nei fumetti la tragedia quotidiana che è l’esistenza di Zerocalcare (e di chiunque gli graviti intorno) è stemperata da una massiccia dose di ironia tagliente, ma è possibile che in questo paese il giovane artista (o l’artista tout court) in ambito letterario; cioè il fumettista, il romanziere o il poeta, debba sempre essere rappresentato come una persona che vive nel malessere, schiva, continuamente sull’orlo di una imminente crisi depressiva? È un’immagine talmente diffusa che ormai è diventata uno stereotipo. Perché non possono esistere artisti felici, sereni, che si godono la vita?
I motivi sono due: il primo è che il tormento esistenziale è il genere letterario più in voga, perché è più stratificato e attraente della piana felicità e più denso di potenziali svolte narrative, quindi più appetibile per un ipotetico lettore. Un artista che si macera nella mestizia è considerato più acuto e profondo di un artista felice e il pubblico sceglierà sempre il primo, perché non vuole sentirsi poco intelligente. Il secondo è che gli artisti soffrono di inconsce forme di paranoia che si manifestano nell’attitudine all’over thinking e all’over consciousness, la quale li porta irrimediabilmente all’autosabotaggio e a problematizzare tutto, anche situazioni che sarebbero semplicissime. In parole povere, gli artisti pensano troppo. Ad oggi, quella del creativo afflitto è la narrativa dominante, perché chi devia dalla norma del supplizio, non facendo commercio del proprio dolore, viene escluso dai circuiti culturali.
Tutto ciò è francamente frustrante: per chi vive il malessere autentico, patologico e profondo che conduce alla dissoluzione fisica e mentale e all’indigenza, la putrefazione del sentimento e il lento annientamento della propria persona, cioè per tutte le persone che soffrono di un disagio psichico reale e certificato, come la depressione o il DOC, quello in cui indulge Zerocalcare è percepito come, a volte, un piagnisteo adolescenziale epidermico e gratuito, risolvibile con un poco di lavoro su sé stessi. Quando si sprofonda negli abissi della sofferenza, che è dolore calcificato e quindi inservibile, non c’è ironia che possa alleviare il cuore. Non c’è niente di creativo e folkloristico nel disagio (quello vero) e nessun artista dovrebbe essere tenuto a sperimentarlo per essere tale. Se lo possono permettere solo pochissimi poeti. Il disagio non è romantico, il disagio è orrendo. Certo, questo i personaggi di Zerocalcare lo sanno bene, e infatti provano sempre a svortà, a migliorare la propria situazione, ma in fondo sembrano guardare allo squallore delle loro vite con indulgenza, come se si fossero, in qualche maniera, affezionati.
Il Secco è l’epitome di questo atteggiamento. Si tratta di una persona la cui unica attività consiste nel giocare a poker, tirare bombe carta e collezionare processi, emotivamente atrofizzato, incapace di pensare al futuro e assumersi qualsiasi responsabilità e svolgere qualsivoglia iniziativa per migliorare la sua esistenza. È palesemente una personalità tossica, eppure viene presentato come un personaggio tutto sommato accettabile, come il prodotto normale e standard della periferia di Rebibbia. Riassumendo, il popolare viene sempre associato al disagio e alla fragilità, di fatto istituzionalizzando le debolezze emotive della classe popolare. Se ciò è indubbiamente vero, questa rappresentazione rischia anche di diventare una gabbia. Il pericolo è che descrivendo continuamente le classi popolari come, in qualche modo, “difettose”, queste si convincano di esserlo davvero e agiscano come tali, negandosi gli slanci necessari a un’efficace lotta di classe. Inoltre, questo è esattamente il modo in cui la scuola neoliberista statunitense considera gli strati meno abbienti della popolazione: permeati di behavioral problems e crime ridden. Quando i poveri si pensano come li pensa la classe dominante, questa ha vinto. Mentre il ricco è sempre dipinto sorridente e sereno alla guida del mondo, il povero deve sempre apparire triste.
Gli artisti popolari dovrebbero scardinare questa raffigurazione del povero come perennemente prostrato, incapace di alti voli. Perché un artista di estrazione umile non potrebbe parlare di musica contrappuntistica medievale, grammatica etrusca o teologia? Perché non dovrebbe cercare il nerbo dell’immenso e tendere a spazi siderali? O ciò è riservato solo agli intellettuali di buona famiglia? Purtroppo, nell’Italia di oggi, ciò non può accadere, perché una parte consistente dell’intellighenzia di sinistra non tollera che il povero possa desiderare bellezza, serenità o addirittura, non sia mai, eleganza. Il povero deve continuare a essere povero, a vivere un’esistenza pianterrena senza sfizi, perché se acquistasse stabilità economica smetterebbe di essere conflittuale, e siccome non può esistere sinistra antagonista senza conflitto, smetterebbe anche di essere di sinistra. Al povero non è permesso tradire i canoni estetici della povertà. Egli deve pensare solo a scrivere sui muri e commettere atti di vandalismo. Egli deve essere soddisfatto di vivere nel degrado, perché esso è sintomo di autenticità e l’ordine e la pulizia sono istituzioni di controllo sociale borghesi e reazionarie. In parole povere, il povero deve continuare a spendere le sue energie mentali nello straccionismo emotivo, non gli è concesso emanciparsi da sé stesso.
Ciò è evidente nell’opera di Zerocalcare: il povero parla di argomenti da povero, ascolta musica da povero e si veste da povero (i personaggi eleganti sono negativi), con citazioni da povero, cioè prevalentemente pop. Tutto deve collidere, tutto deve creare attrito ed essere oppositivo. Qui, e non nell’assurda polemica sulla sua comprensibilità (che è perfetta, visto che è toscano con qualche parola diversa) risiede il problema dell’uso del romanesco. Quest’ultimo è infatti è la parlata proletaria per eccellenza. È senza fronzoli, diretta, esplicita. Ancora una volta, si ripete la consolidata dicotomia: il povero deve esprimersi come Mario Brega per essere autentico, con tutte le limitazioni psico-cognitive che ciò comporta, visto che la lingua che parliamo delimita la rappresentazione mentale del nostro mondo. A ogni argomento la lingua che più gli si confà. Se i personaggi di Zerocalcare non conoscono che il romanesco, saranno in grado di trattare temi che prevedono altri codici linguistici? Probabilmente no, e quindi gli saranno negate consistenti porzioni di mondo. Zerocalcare descrive una bolla, che è quella della periferia romana. Dunque un qualcosa di limitato, che però nei fumetti eleva a paradigma dell’intera gioventù italiana. L’autore, per sua stessa ammissione, fatica ad uscire da Rebibbia, persino quando è in coppia, e quando ci riesce, rebibbizza ogni altro luogo.
Inoltre, un ulteriore problema è costituito dal fatto che le multinazionali, per rendere i loro prodotti più local friendly, hanno di recente avviato massicce campagne di marketing in cui usano parole dialettali per pubblicizzare la loro merce, compiendo un’oscena operazione di svuotamento del loro significato. Il romanesco, che è la lingua egemone dell’industria dell’intrattenimento insieme al napoletano, in virtù della sua diffusione, è stato particolarmente colpito. Si tratta di uno stratagemma criminale la cui colpa non è certo di Zerocalcare, ma quanto è rimasta autentica la parlata romana se ormai è una lingua di moda così sovrarappresentata? Forse, Zerocalcare potrebbe considerare di far parlare i suoi personaggi in greco antico, sarebbe una lingua non assimilabile dal capitale, e dunque, infine, veramente popolare.
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