Roma
Funerali Casamonica: un’intera città stuprata. Ora chi non ci sta alzi la voce
Una città stuprata.
Non ci sono altre parole per descrivere quello che è successo ieri a Roma, quartiere tuscolano, nella Basilica di San Giovanni Bosco, a Cinecittà.
Vittorio Casamonica, 65 anni, uno dei maggiori esponenti dell’omonimo clan, responsabile per decenni di attività illecite come usura, racket e traffico di stupefacenti nell’area sud est della città, è stato omaggiato durante le sue esequie con una carrozza trainata da sei cavalli neri, petali di rose lanciati da un elicottero privato, enormi manifesti trionfali e persino da un’orchestra, che ha suonato le note della colonna sonora del film “Il padrino” al termine del rito religioso celebratosi nella Basilica dedicata San Giovanni Bosco, fondatore dell’ordine dei Salesiani.
Un set cinematografico a tutti gli effetti, la cui sapiente regia è ovviamente rimasta nell’ombra, sconosciuta, sembra, addirittura al prete che ha celebrato la messa, il quale alla richiesta di spiegazioni sull’inquietante avvenimento è caduto dalle nuvole: “Io non ne sapevo niente. Le mie competenze sono circoscritte a quanto accade all’interno della Chiesa, e qui dentro tutto si è svolto normalmente.”
All’esterno, invece, dove erano state posizionate gigantografie del malavitoso e scritte ammiccanti al suo potere sulla città, di normale non c’era proprio nulla.
La notizia, ovviamente, ha prima fatto il giro dei Tg nazionali della sera, e poi è finita su tutti i giornali esteri di stamani.
Ed ecco servita l’ennesima brutta figura per la nostra città.
“Disgusto a Roma” ha titolato stamani il Guardian, sottolineando incredulo come si sia permesso lo svolgimento di un funerale mafioso in pompa magna in una delle chiese più frequentate della periferia romana. Sia la stampa inglese che quella francese hanno dato ampio spazio all’accaduto, con foto e articoli in quasi tutte le prime pagine dei quotidiani più diffusi.
Uno sfregio, insomma, con risonanza internazionale. Perché quello di ieri non è stato solo un funerale, ovviamente, ma piuttosto un messaggio, una manifestazione di potere.
E soprattutto, una enorme provocazione.
“Roma è nostra!” sembrano dire quei petali di rosa lanciati dall’elicottero, quei cartelloni con l’immagine del Boss Casamonica sullo sfondo del Colosseo. “Roma è nostra e noi facciamo quello che ci pare!”
Una provocazione che non deve, non può restare impunita.
Qualcosa in tal senso ha cominciato a muoversi ieri stesso.
Un paio d’ore dopo la conclusione delle esequie, il sindaco Ignazio Marino ha chiamato il Prefetto di Roma per assicurarsi che sulla vicenda siano condotti degli accertamenti con estremo rigore. “I funerali dei morti non possono essere strumento per mandare messaggi mafiosi ai vivi” ha dichiarato il primo cittadino. “Quello che è successo è intollerabile e non sarà tollerato.”
Nella serata di ieri si è attivato anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ha chiesto a Franco Gabrielli una relazione dettagliata sull’intera faccenda, al fine di valutare la messa in atto di provvedimenti e sanzioni.
Oggi, intanto, si susseguono le dichiarazioni di sdegno da parte di tutti gli esponenti politici, di ogni schieramento.
Ma la reazione istituzionale, a fronte di quello che è successo, da sola non basta e non può bastare.
E questo perché le responsabilità dell’accaduto non sono soltanto della politica, bensì molto più vaste.
Dovrebbero anzitutto fare un enorme mea culpa le istituzioni ecclesiastiche, sempre inflessibili contro i laici (giova ricordare che la cattedrale di Don Bosco è la stessa dove furono negati i funerali a Piergiorgio Welby, colpevole di eutanasia), ma che si sono nuovamente dimostrate disposte, come troppo spesso accade, a chiudere un occhio (o anche due) verso la malavita organizzata e verso i suoi esponenti di spicco. Questo nonostante, è bene ricordarlo, per il recente intervento di Papa Francesco tutti i mafiosi siano formalmente in stato di scomunica (21 giugno 2014).
Davvero il parroco non sapeva cosa stava succedendo fuori dalla sua Chiesa? Davvero il vicariato non sapeva a chi stava concedendo i funerali religiosi, e il permesso di disporre di immagini sacre sulla tomba del defunto?
Ma soprattutto, in maniera ancora più urgente, deve fare mea culpa l’intera città.
Si, colpevole anch’essa: di silenzio.
Un reato odioso, vigliacco, molto più grave di quello che si potrebbe pensare.
Perché se nessuno, in uno dei quartieri residenziali più affollati di Roma, a fronte di quelle gigantografie mafiose, di quella musica resa oscena dall’occasione, ha avuto l’idea di dire qualcosa, di protestare con il parroco, di chiamare i carabinieri, allora c’è qualcosa di tremendamente marcio che viene fuori.
Una realtà che molti continuano a sostenere esista solo nei quartieri periferici di Napoli, o di Palermo, ma che invece c’è anche qui, nel cuore stesso del nostro paese: l’omertà. Il timore di ritorsioni. In qualche caso, persino la simpatia, la connivenza verso gli ambienti mafiosi. Negare questa realtà, in quanto scomoda, non ha fatto altro che permettergli di prendere piede, di ingrandirsi, di fare proseliti.
E la conseguenza di tutto questo è stato lo stupro della dignità della nostra capitale, l’ennesima umiliazione per l’Italia davanti agli occhi del mondo.
La domanda a questo punto è: c’è ancora qualcuno che non ci sta? C’è ancora qualcuno, in questa città, che ha il coraggio, la voglia, l’impulso morale di opporsi a tutto questo? Di dire “basta”?
Contro la paura, la medicina è il coraggio. Contro l’ignoranza, l’istruzione. Contro il degrado, il senso civico.
I mezzi per agire, per opporsi, ci sono già. Bisogna però avere il coraggio di usarli, di metterci la faccia, di sottrarre un po’ di tempo alle proprie attività quotidiane. La capitale, ora o mai più, deve dimostrare di avere voglia di salvarsi, di reagire. Reggersi sulle vestigia di una grandezza passata e decadente non può più bastare, e non serve più a niente.
I romani smettano di essere ostaggio di pochi balordi dalle vite miserabili, e si riprendano i loro spazi.
Roma la smetta di avere paura, la smetta di voltare lo sguardo dall’altra parte, la smetta di vivere in ginocchio.
Piuttosto, cominci ad alzare la testa.
E soprattutto, la voce.
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