Religione

Elogio del cambiamento, il caso Majakovskij e la danza di Paola Bianchi

15 Gennaio 2020

Chi ha ucciso Majakovskij? Il 14 aprile 1930, alle 10,30 del mattino un colpo di pistola spegne la Rivoluzione. Il vate dell’avanguardia cade a terra ferito mortalmente al petto. E’ subito giallo. Fu suicidio od omicidio? Il proiettile è stato sparato da una piccola Browning. No, forse da una Mauser, arma da fuoco regalata al poeta da un agente del Nkvd, gli occhiuti e onnipresenti servizi segreti in grado di controllare, con una rete di informatori e delatori, chiunque fosse un potenziale nemico del popolo in marcia. Marcia che, dopo la Rivoluzione del 1917 aveva esaurito la spinta propulsiva, sbarazzandosi, in primo luogo proprio degli intellettuali, uomini di pensiero e cultura che ne avevano coltivato il terreno per far crescere il consenso. A riportare l’attenzione sul geniale futurista russo è il work in progress di uno spettacolo teatrale che cita una sua poesia, “L’incidente è chiuso”, presentato nei giorni precedenti il Natale al festival romano dei Teatri di Vetro. L’allestimento curato dai romagnoli Menoventi apre vecchie ferite ipotizzando nuovi scenari. Le verità possibili sono diverse. In un articolo apparso sul quotidiano “Izvestija”, circa quindici anni fa, viene indicata una selva di singolari e sinistri personaggi che in quei giorni giravano attorno al poeta. Iniziando da tale Agranov, agente Nkvd, esperto in attentati e legato a Loktev dell’agenzia letteraria Gis che bussò a casa di Vladimir Vladimirovic Majakovskij proprio la mattina del 14 aprile. Secondo alcune fonti i vicini riferirono di aver sentito non uno ma due spari. E, giusto per rincarare la dose, l’ufficiale incaricato di condurre le indagini sulla morte del poeta futurista verrà trovato ucciso dieci giorni dopo. I dubbi agitano interrogativi sia attorno alla vita del geniale poeta come sulla rete che, dopo lo scontro tra stalinisti e trotskisti, aprì la strada del potere al dittatore georgiano.

“L’incidente è chiuso” dei Menoventi andato in scena nel festival romano dei “Teatri di Vetro” Il momento dell’interrogatorio di Nora (foto di Marco Parollo)

Majakovskij coglie per primo lo slittamento verso il grigiore in cui a trionfare saranno i burocrati e a perire i poeti. Soprattutto negli anni Venti è uno stillicidio, Alexander Blok scompare quarantenne; arrestato dalla Ceka, la polizia segreta, perde la fede nella Rivoluzione ed entra in depressione (1921). Per Sergej Esenin (1925) Majakovskij scriverà questi versi: “In questa vita/ non è difficile / morire./ Vivere/ è di gran lunga più difficile”. Esenin apparentemente si suicidò in una stanza d’albergo, ma molti sono i dubbi che fosse stato tolto di mezzo dai servizi segreti. Un altro poeta suicidato, come in molti pensano avvenne anche per lo stesso Majakovskij. L’elenco imparziale prosegue con Mandelstam (si spense in un gulag vicino Vladivostock nel 1938), Nikolaj Gumilev, marito della poetessa Anna Achmatova fucilato come controrivoluzionario nel 1921 e poi ancora fino a Cvetaeva che si tolse la vita nel 1941.In momenti di incertezza come gli attuali, in cui cultura e arte hanno spazi ridotti è utile tornare a quei giorni per riflettere sui meccanismi del potere. La studiosa di letteratura Serena Vitale, pochi anni fa ha scritto “Il defunto odiava i pettegolezzi”, un’opera storica avvincente come un romanzo ricca di elementi inediti spulciati dagli archivi stalinisti. Dal suo libro le linee di ispirazione sono servite alla compagnia diretta da Gianni Farina e Consuelo Battiston per l’anteprima de “L’incidente è chiuso” (al debutto la prossima estate prenderà lo stesso titolo del libro della Vitale) mostrata negli spazi modulari del teatro India all’interno di un festival prezioso per la scena contemporanea tricolore.

Il poeta Vladimir Vladimirovic Majakovskij e l’amante Lilja Brik fotografati assieme in un momento di relax idurante una escursione

Una rassegna cioè che fotografa il work in progress di alcuni lavori caratterizzanti le prossime stagioni. Pregiata zona d’osservazione, il festival “Teatri di vetro” diretto con passione da Roberta Nicolai in modo opportuno e complice distacco, permette di mettere a fuoco opere e coreografie cogliendole nel loro divenire, lasciando spazio all’incontro tra gli stessi performer, attori e registi, pubblico, studiosi e spettatori professionisti. Una bella carta da giocare per crescere e poter far nascere altre idee e collaborazioni. Ricco il cartellone di questa tredicesima edizione che si svolgeva tra Tuscania, il teatro del Lido e l’India e in cui sono state mostrate in anteprima gli studi e i nuovi allestimenti di importanti performers come Chiara Frigo e Silvia Gribaudi, Riccardo Guratti, Giovanna Velardi, Carlo Massari, Teatro Rebis, Giuseppe Vincent Giampino, Massimo Donati, Le vie dei Fool.

La performance “Himalaya drumming” di Chiara Frigo presentata prima di Natale a “Teatri di Vetro” (foto di Margherita Masè)

 In questo contesto ha preso vita sul palcoscenico “L’incidente è chiuso” con gli attori Consuelo Battiston, Federica Garavaglia e Mauro Milone. Il poeta, Nora, la sua amata Lilja Brik. Con lei e il marito Osip visse quindici anni un “menage a trois” (poi si scoprirà che la coppia collaborava con i servizi di Stalin). Lilja, che aveva posato per Rodchenko in un celebre manifesto pubblicitario per la diffusione della lettura fu comunque il vero unico grande amore del poeta, mentre Victoria Polinskaja detta Nora, fu l’ultima donna che vide in vita il poeta nella sua stanza nel passaggio Lubjanskij.L’allestimento sceglie le ombre e i contrasti chiaroscurali per raccontare su piani diversi _ l’interrogatorio a Nora, l’inchiesta giornalistica _ una tragedia annunciata da tempo. Più volte lo stesso poeta infatti, come testimoniò Lilja, minacciò di finire i suoi giorni colpito da un proiettile. Minacce rivolte anche all’amante. A Veronika Polinskaja aveva chiesto di lasciare marito e teatro per andare a vivere con lui. “L’ incidente è chiuso” si concentra sull’essenzialità del dramma aprendo una finestra inedita sulla passione di Majakovskji per i viaggi nel tempo, ne racconta la curiosità per le teorie sulla relatività di Einstein che circolavano proprio in quel periodo. Ecco così la figura di una donna vestita di neon fosforescenti che pare uscita da un film di Fritz Lang, un personaggio futuristico (Carmela Battiston) presente nella commedia “Banja” ricca di critiche verso i burocrati e che, secondo molti, fece aumentare la diffidenza se non la circospezione del potere nei confronti del poeta. Un elemento, quello del viaggio del tempo, fortemente simbolico e presente nell’opera di Majakovskij che non a caso lancia un appello alle generazioni future. Farina si è districato dentro una materia difficile e dove continuano a restare diversi i lati oscuri, come sono stati narrati dal libro della Vitale. Majakovskij dava fastidio ed era controllato dal servizio segreto, quello che diventerà poi il Kgb. Questo ebbe delle responsabilità quella mattina?

“L’Incidente è chiuso” della compagnia Menoventi La donna fosforescente interpretata da Consuelo Battiston al festival romano al teatro India (foto Marco Parollo)

La Polinskaja era già sulla strada del teatro, udì lo sparo e fece precipitosamente marcia indietro trovando il futurista a terra già cadavere. Fu omicidio, suicidio? Majakovskij, il poeta di ferro si può essere ucciso davvero per amore? Qualcuno ha ipotizzato che minacciando il gesto estremo alla sua compagna sia potuto partire un colpo accidentale dal revolver. Magari fu lo stesso poeta a volere mettere termine ai suoi amari giorni. Nella poesia “In morte di un poeta” Boris Pasternak scrisse: “il tuo sparo fu simile a un Etna in un pianoro di codardi e codarde”. Testimonia la solitudine del grande uomo d’arte e di pensiero. Elsa Triolet, sorella di Lilja Brik e moglie di Louis Aragon, un giorno disse: “L’hanno perseguitato sino al giorno della sua morte. Le sue opere erano pubblicate con tirature insufficienti, i suoi libri e i suoi ritratti erano tolti dalle biblioteche […] Un piccolo funzionario, nel 1934, al Congresso degli scrittori di Mosca, per averlo io rimproverato d’avere tagliato senza giustificazione il nome di Majakovskij in un mio articolo, come se questo nome fosse un disonore, disse: “Esiste un culto di Majakovskij e noi lottiamo contro questo culto”. Al suo funerale giunsero oltre centomila persone! Segno che il poeta fosse amato dal popolo. Ecco, difficile capire la fine di Majakowskij se non si rendono evidenti e in controluce le trame di quel potere nascente che soffocava i sogni di libertà e rivoluzione. Gli stessi per cui Majakovskij aveva creduto e combattuto.

Una scena tratta dallo spettacolo “L’incidente è chiuso” della compagnia romagnola Menoventi con la regia di Gianni Farina (foto di Marco Parollo)

Due giorni prima di morire un suo scritto profetico: “Della mia morte non incolpate nessuno e, per favore, niente pettegolezzi”. Il poeta era controllato, e anche calunniato (Maxsim Gorkj fece circolare la voce che si fosse ucciso perchè sifilitico. Ma non era vero). “L’incidente è chiuso” ha una sua fascinazione anche perché la materia dello spettacolo è circondata dalla speciale aura di Majakovskij accanto alle scoperte (merito del libro della Vitale) che gettano nuova luce sull’epoca seguita alla morte di Lenin. Majakowskij nei fatti é già un nemico non dichiarato del popolo. Un intellettuale scomodo da mettere da parte. E questa parte, certo complessa, che racconta il mondo di sotto di tutti i giorni della Russia del tempo sarebbe utile fosse magari più evidente. Infine le relazioni quasi inedite che si possono mettere in sincrono tra scena e fisica come ha mostrato in un incontro a tre la sera successiva. Da una parte il regista a fare da mediatore e intervistatore. Dall’altro la scrittrice Serena Vitale e lo scienziato bolognese Fabio Ortolani, fisico teorico hanno prospettato interessanti orizzonti da esplorare sul rapporto tra la poesia e la scienza.

La danzatrice e coreografa Paola Bianchi nel suo solo “Energheia” in scena al festival romano “Teatri di Vetro”  all’India (foto Espera)

A proposito di viaggi nel tempo. Potrebbe sembrare un paradosso, ma nella stessa sera che Menoventi monta il suo “Incidente” arriva la travolgente danza di Paola Bianchi in un denso solo che toglie il respiro. “Energheia” , nel senso in cui Aristotele indicava la trasformazione, è uno spettacolo post catastrofe. Memoria in movimento del secolo breve che trasloca nel futuro trascinandosi le scorie del passato. E i casi insoluti, e che aprono mille interrogativi, come quello del grande poeta russo, sono lo specchio di un’epoca connessa strettamente ai nostri giorni. Miracolo dell’arte, a leggere in profondità si scoprirebbe una felice assonanza tra le liriche di Majakovskij e la poesia in movimento di Paola Bianchi una delle più ardimentose sperimentatrici della danza in Italia: entrambi sottolineano urgenza e fotografano i cambiamenti antropologici e sociali. Figura importante della ricerca ed essa stessa icona, una delle poche, di un’Avanguardia sempre più dispersa in mille rivoli, Paola Bianchi ha lavorato per più di un anno attorno a un progetto ambizioso, Elp, che ha avuto tre diversi step e momenti espressivi (tra cui una coreografia montata con persone non vedenti), ma di cui proprio “Energheia” rappresenta il cuore pulsante, ispirato da una singolare idea. Visionando una serie di immagini pubbliche fissatesi nella retina di una quarantina di persone la danzatrice le ha tradotte in segni coreografici. Sono fotografie che ciascuna persona interpellata dall’artista ha selezionato dalla camera oscura dei propri ricordi per trasformarli in evento pubblico. Momenti consegnati alla Storia che, per estrema sottrazione, si sono trasformati nelle lettere di un alfabeto danzato, utile a ricostruire sulla scena oltre settanta anni della nostra vita. Un canto politico e poetico per una umanità che muore. Il film scorre veloce. E’ un pulsare continuo di gestualità. Movimenti quasi meccanici di un corpo che si snoda come fosse una marionetta appena uscita dall’atelier di Montparnasse della grande Marie Vassilieff.

Paola Bianchi in un altro momento di “Energheia” al teatro India di Roma (foto Valentina Bianchi)

Sono personaggi inediti, frutto di un surrealismo etnografico, plasmati in diretta da Bianchi che piega il proprio corpo verso direzioni inattese. Figure composte con la velocità della luce in quadri teatrali dove si rintracciano i tratti di un’arte primitiva, sensori di una spiccata passione per le avanguardie storiche. Come per incanto lo spettatore si trova davanti a una sorta di miniaturizzazione della storia, di eventi entrati nel profondo delle coscienze e risvegliati di colpo anche da un solo cenno: il roteare del bacino, un dito che indica, una ardita torsione. C’è straordinaria mimèsi in quelle pose plastiche, i pugni levati al cielo suggeriscono rabbia e violenza, voglia di spiccare il volo correndo a perdifiato, mentre Fabrizio Modenese con impeccabile maestria in diretta arpeggia alla chitarra elettrica linee di fughe vestite efficacemente dalle luci disegnate da Paolo Pollo Rodighiero. Danza e musica vivono anche in questa creazione in simbiosi solidale dandosi il turno nell’evocare visioni. Sia piazzale Loreto, come l’11 settembre a New York, la piccola vietnamita in fuga dai bombardamenti e napalm. Canto dell’umanità confusa e dal futuro incerto, elogio della trasformazione e del cambiamento anche “Energheia”, stranamente come la poesia di Majakovskij, ha fretta di viaggiare nel tempo. Commuove aprendo interrogativi in un veloce alternarsi di cambi di scena e squarci nel cuore.

Work in Progress di “Ekphrasis” coreografie di Paola Bianchi danzate da dieci ballerini e presentato al festival “Teatri di Vetro” (foto Fabio Melotti)

Sempre nell’ambito dello stesso progetto Elp (cioè Ethos, Logos e Pathos: modo di essere, parola e ascolto, forza emotiva) la sera successiva è stata presentato un altro work in progress, “Ekphrasis”, dieci giovanissimi danzatori in scena (Barbara Carulli, Camilla Soave, Chiara Andreoni, Elena Salierno, Elisa Quadrana, Francesca Bertolini, Lorenzo De Simone, Martina del Prete Paola Fontana e Sara Capanna, musiche live di Modenese e luci di Rodighiero. Coreografie e regia di Paola Bianchi fuori dal palcoscenico) in un intrico di movimenti tesi a replicare una parte di quell’archivio di gesti e figure che Bianchi ha consegnato loro da “Energheia”. Una sorta di versione in prosa quindi del lavoro precedente ma dotato di un proprio indiscutibile fascino del moltiplicarsi e intersecarsi dei piani così come delle visioni. I ragazzi che hanno lavorato duramente con la coreografa sono coordinati e abbastanza precisi, alle prese con un atto unico per niente semplice. Eppure, sarà la freschezza dell’età e la palpabile energia trasmessa dai loro corpi, “Ekphrasis” lievita e conquista in modo progressivo lasciando il ricordo di una danza ricca di emozioni.

Una scena dallo spettacolo “Pragma” del Teatro Akropolis, regia a cura di Clemente Tafuri e David Beronio (foto Clemente Tafuri)

Autentici esploratori delle radici antropologiche della scena i tipi del teatro Akropolis hanno offerto alla rassegna la replica del loro intenso “Pragma”, viaggio nel cuore stesso delle origini, laddove il sacro dei misteri si incontra con la tragedia. E’ la magica saga di Kore figlia di Demetra rapita da Ade, la comparsa di Baubò, personaggio ibrido con il corpo da donna che renderà possibile l’incontro tra madre e figlia. Con la nascita di Dioniso “Pragma” fotografa il ciclo della vita e della rinascita: un ritorno alle fonti stesse del teatro con una messa in scena asciutta ed essenziale curata dai due autori Clemente Tafuri e David Beronio e la bella presenza attorale di Domenico Carnovale, Luca Donatiello e Aurora Persico. A seguire Tafuri e Beronio, in “La parte maledetta”, interrogati da Roberta Nicolai hanno raccontato e presentato alcuni materiali di lavoro frutto del momento di ricerca e composizione di “Pragma, Studio sul mito di Demetra”. L’incontro è parte di Oscillazioni, il progetto curato dalla stessa Nicolai che vuole interrogare “il processo di creazione assumendo la prospettiva della sua complessità, del suo procedere non per linea retta, del suo deragliare e lasciare tracce, residui e scarti”.

La danzatrice Alessandra Cristiana in scena in “Clorofilla” spettacolo firmato con Marcello Sambati (foto di Margherita Masè)

In buona sintonia con la ricerca e la visione poetica degli Akropolis sembra la danzatrice Alessandra Cristiani che in “Clorofilla” ha proposto un intenso e meditato viaggio _ scritto in tandem con Marcello Sambati _ alle fonti stesse della percezione del proprio spazio vissuto. Sulla scena la figura eterea e nuda della Cristiani è come una rosa in un giardino illuminato a giorno da una luce geometrica. Il suo è un percorso lento e progressivo al centro di una scena rettangolare dove si offre allo sguardo degli spettatori assisi attorno come a rimirarsi in uno specchio. Cristiani è figlia del butoh, un’arte che evidentemente ha praticato a lungo con impegno e intensità. E di quella straordinaria danza giapponese ne ha trattenuto tutta la capacità di lavorare sull’energia, sondando e mettendo alla prova il proprio corpo. La sfida tra luce e tenebre in questo caso si nutre di forze animali, di piccoli momenti, pause e risvegli come una farfalla che esce dal bozzolo e vola via. La musica è di suoni della terra, accompagnano languidamente e significativamente la costruzione di un rituale. Invitano gli spettatori a parlare del presente stimolati dalla tessitura di un mosaico di letture e parole accostati alla figura di Josephine, cantante protagonista del racconto di Kafka (“Josephine, la cantante ovvero il popolo dei topi”) il duo formato da Tamara Bartolini  Michele Baronio da sempre attenti ad analizzare il mondo della comunicazione e l’interazione tra società reale universo letterario.. In “attenti alla ragazza che corre” i teatranti chiedono agli spettatori di interagire lasciando una documentazione registrata dei loro pensieri. In “Lei dimora nel canto” presentato in precedenza invece c’è una comuna ricognizione compiuta con gli spettatori sui luoghi intimi del racconto kafkiano.

“Lei dimora nel canto” conversazioni con Tamara Bertolini e Michele Baronio (foto Margherita Masè)
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