Roma

Il Natale di De Filippo finalmente dissacrato. Siamo pronti?

20 Dicembre 2014

La domanda che mi frullava in testa, assistendo a Natale in casa Cupiello, nella versione di Antonio Latella, è se Roma, o l’Italia in genere, sia pronta a reggere il “contemporaneo”. Mentre sul palcoscenico del Teatro Argentina si svolgeva lo spettacolo, mi veniva in mente la copertura dell’Ara Pacis, sul lungotevere, firmata dall’archietetto Richard Meier: di fatto, l’unica architettura contemporanea in centro città dopo il vuoto MAXXI di Zaha Hadid. Svanita in cielo la “nuvola” di Fuksas, disperso tra i rovi lo stadio del nuoto di Calatrava, la capitale si consola con il Ponte della Musica e con il Ponte delle scienze – uno all’Olimpico, l’altro a Ostiense – e qualche restyling di negozi.

Per capire, dunque, l’importanza dell’allestimento realizzato da Antonio Latella e dai suoi attori, potremmo pensare alla Piramide di Pei al Louvre. Di fatto, un segno di aspra, vibrante, possibile contemporaneità che si istalla su, si impossessa di, rinnova la tradizione. Il regista ha preso il classico di Eduardo e, salvaguardando una rigorosa filologia, lo ha letteralmente rivoltato, smascherato, demistificato. Nulla per il nostro paese di più tradizionale di Natale in casa Cupiello: anche chi non l’ha visto a teatro, ci è cresciuto assieme, grazie alla versione televisiva. Sono i ricordi in bianco e nero, che accompagnano molte generazioni, sono le parole di Eduardo diventate linguaggio comune, sono una visione della società – pure aspra, nera, pessimista – che connotava il grande napoletano.

Latella si è reso responsabile di una lucidissima dissacrazione, di un gesto che finalmente dà nuova identità al “mausoleo”, che tratta l’opera di Eduardo non come un patrimonio di belle arti da conservare, ma come una materia viva, ancora ribollente, su cui lavorare. Natale in casa Cupiello che il Teatro Argentina ha avuto il merito di programmare, è il primo radicale gesto di rivoluzione. Sembrerà esagerato, questo termine. Ma è così: quando l’immagine della città trasmessa al mondo è di nuovo quella della Grande bellezza, efficacissimo aggiornamento della Dolce Vita, lo scarto operato da Latella è ideologicamente alternativo. In un percorso già avviato con precedenti lavori (basti citare Il Tram chiamato desiderio, il fragoroso Servitore di due padroni da Goldoni o Francamente me ne infischio da Via col vento) Antonio Latella affonda nella “invenzione della tradizione” con estrema lucidità e sapienza. Trova il palcoscenico principale della capitale per firmare dunque uno spettacolo che spezza definitivamente con un’idea di “repertorio” intoccabile (e impraticabile in quanto intoccabile), opera uno stacco dall’eterna prospettiva “conservativa” (ancorché altissima) del patrimonio culturale nazionale. Il Natale di Latella ha diviso, ha indignato alcuni spettatori, ha lasciato perplessi anche molti critici. Per me – che comunque sto dalla parte di chi cerca di rinnovare i codici – l’esito scenico supera la riflessione estetica, per entrare smaccatamente in una dimensione etica e politica. Molti commentatori hanno giustamente chiamato in causa un ritorno del “teatro di regia” (che pure, nonostante illustrissime eccezioni, sembra cedere il passo): quel che mi preme rimarcare, invece, è la presa di posizione di un individuo e di un artista nei confronti della società. Le cronache (on line e cartacee: si veda ad esempio delteatro.it o doppiozero.com) hanno parlato di un lavoro diviso in tre ambienti, tre stazioni. La prima, con gli attori frontali al pubblico, disposti in linea di proscenio, che dicono tutto il testo – didascalie comprese – e al momento danno voce ai propri personaggi, mentre sullo sfondo cala un’enorme stella cometa. Luca Cupiello (magistrale Francesco Manetti) dà le indicazioni, racconta, spiega. È un’apertura folgorante, bellissima. Il secondo momento, vede il gruppo di personaggi alle prese con la preparazione della cena di Natale. Ciascuno porta con sé un enorme pupazzo di animale, il cadavere da mangiare, da squartare, mentre Concetta, la moglie e madre, trascina un enorme carro funebre (meravigliosa Monica Piseddu: da anni diciamo che è una straordinaria attrice) caricandosi letteralmente il peso della storia. Dopo l’intervallo il terzo atto: il più ambiguo, oscuro, straniante, amaro. Luca Cupiello è moribondo, steso nella mangiatoria del fantomatico presepe, tutto intorno, come ombre di un’opera al nero, cantano il compianto tutti gli altri personaggi, in cui spicca il figlio Tommassino (grande interpretazione per Lino Musella) che si prenderà la responsabilità  – finalmente! – di mettere fine allo strazio, di dare degna morte al mondo dei padri: in una invenzione tutta teatrale, lo riduce al silenzio dopo l’incontenibile flusso verbale, dopo il persistente e ostinato protagonismo di Luca Cupiello.

Non sto a riassumere la trama, né a elencare tute le innumerevoli invenzioni, le soluzioni spiazzanti eppure straordinariamente rispettose del dettato del testo. Quel che mi preme, in definitiva, è enucleare tre passaggi teorici.

Del primo ho fatto cenno: il superamento della tradizione attraverso la radicale reinvenzione. È una prassi ormai abituale con Shakespeare o con i cosiddetti “classici”, Latella ha il merito di farci intravedere un percorso, di mostrarci una fenditura nel muro di gomma del passato italiano. La celebre definizione di Agamben dice, più o meno, che è contemporaneo «colui che cerca di coincidere e adeguarsi al suo tempo, ma chi aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo; non chi vede le luci del suo tempo, ma chi riesce a percepirne l’oscurità». Su questo piano opera Latella, svelando l’inattualità e la durata possibile di un testo come Natale in casa Cupiello, e portandolo sul piano spiazzante di un’inquietante e metaforica oscurità, rivelandone altre e possibili prospettive. Quell’eterno presepe posticcio che è l’Italia, basato sull’ammiccamento, sul perdono, sul “volemose bene” nonostante tutto, non ci piace più.

Il secondo è il piano smaccatamente artistico: Latella sta parlando, sempre più, il linguaggio di una “teatralità” ammaliante. Non tutto è comunque condivisibile (ad esempio, il terzo atto di questo Natale, risulta forse eccessivo, impegnativo per gli spettatori già provati: Latella lo sa e giustamente se ne frega) eppure il regista sta elaborando codici affascinanti, coinvolgenti, decisi, che costringono il pubblico a prendere posizione. In questi tempi, di passività mediatica, di consensi preventivi, di ammiccamenti continui, di crozzismo diffuso, Latella – assieme ad altri, ovviamente – restituisce al teatro la funzione di “luogo di discussione”, di confronto, anche di sano e dialettico scontro.

Infine, il piano generazionale, dunque politico. Vedere schierati là, tutti allineati sul palcoscenico dell’Argentina, una generazione di attori, il regista, lo staff artistico, mi ha regalato un brivido. Tutti bravissimi: oltre ai citati sono parimente protagonisti Valentina Vacca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Annibale Pavone, Maurizio Rippa, Giuseppe Lanino, Emilio Vacca, Alessandra Borgia. Si sono presi la scena, l’hanno abitata e conquistata a colpi di qualità, con umiltà e maestria: hanno mostrato che si può vivere non solo della “nostalgia dei bei tempi”, di quel teatro che fu. Hanno messo simbolicamente e smaccatamente, un cuscino in faccia ai padri ormai impegnati, stancamente, a ripetere loro stessi. Si sono assunti la responsabilità – complice la direzione del Teatro Stabile di Roma – di un confronto alto, adeguato, rispettoso con il mito, con il moloch intoccabile, e ne sono usciti con illuminante dignità. Ma Roma, ma l’Italia con il suo teatro e con la sua cultura votata alla conservazione e non all’innovazione, è pronta a reggere una simile sfida?

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