Partiti e politici

Cosa resta del Pd a Roma dopo la cacciata del marziano

16 Ottobre 2015

È passata poco più di una settimana da quando Ignazio Marino, arrendendosi alle pressioni che arrivavano da più parti – ma soprattutto dal suo stesso partito – ha annunciato le dimissioni da sindaco di Roma. Ma già nelle ore che avevano preceduto quel gesto definitivo, si era scatenato un finimondo che aveva lacerato definitivamente il Pd romano, ancora frastornato dai colpi dell’inchiesta “Mondo di Mezzo”.

Sia chiaro. Il sindaco marziano non è stato “dimissionato” per due scontrini. Il suo rapporto con la città e con la sua maggioranza era già incrinato da tempo, basti ricordare quel sondaggio commissionato lo scorso anno dall’allora capogruppo dem in Campidoglio, Francesco D’Ausilio (che si è poi dimesso qualche mese dopo perché finito nelle carte degli inquirenti che indagano su Mafia Capitale), dove otto romani su dieci ne bocciavano l’operato.

Tuttavia, a molti non è andato giù il modo con cui Marino è stato scaricato e in particolar modo il fatto che a staccargli la spina sia stato proprio quel partito finito nelle cronache giudiziarie in compagnia di Alemanno, Buzzi e Carminati. E non è casuale che ci siano tanti iscritti dei circoli del Pd Roma tra le oltre 50mila firme alla petizione su Change.org che gli chiede tornare sui suoi passi.

A onor del vero, l’ex sindaco è stato uno spaventapasseri messo a guardia di un campo incolto e infestato di ortiche. Un’immagine che ben rispecchia il fallimento di un intero gruppo dirigente e di un partito che dopo cinque anni di opposizione si è riproposto al governo della città presentando una squadra di amministratori che – salvo alcuni casi isolati come Marta Leonori ed Estella Marino – è stata la caricatura di quel “Modello Roma” così tanto bistrattato dopo la sconfitta elettorale del 2008. Nel Partito Democratico della Capitale, il ricambio generazionale è avvenuto per cooptazioni, travasi di preferenze e finanziamenti per costose campagne elettorali. Non si è voluta formare una nuova classe dirigente promuovendo i giovani per meriti e capacità, ma si è preferito nominarli per fedeltà. Le conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Che poi il chirurgo genovese non fosse facile da gestire, era cosa risaputa. Il suo carattere diffidente, i suoi eccessi, la sua incapacità di comunicare, le sue fissazioni e un feeling con i romani che non è mai sbocciato, hanno semplificato la vita a chi – sia dell’esterno, che dall’interno – ha lavorato per farlo cadere. In fondo il povero Marino era stata un’intuizione mediatica e poco più, una figura fintamente “civica” (non è politica, è Roma) messa lì per rubare consensi all’antipolitica grillina. Ma dietro di lui non c’era un’idea di città, non c’era neanche la riproposizione posticcia delle giunte di centrosinistra precedenti alla disastrosa stagione di Alemanno.

La sua cacciata è stata quindi vissuta con sconforto e rabbia da ciò che resta degli iscritti “buoni” del Pd, che malgrado le narrazioni un po’ semplicistiche degli ultimi mesi sono per lo più persone per bene, talvolta un po’ fuori dal mondo, talvolta molto ingenue, talvolta persino arriviste, ma di sicuro non bande di criminali. Le famose “truppe cammellate” – sia nei circoli “buoni” che in quelli “cattivi”, sia in quelli “utili” che in quelli “inutili” – si sono viste solo in occasione dei congressi o delle primarie. Transitavano come invasori sconosciuti in quelle stanze che in tutti gli altri giorni dell’anno erano (e ancora in molti casi, sono) aperte e animate da volontari forse figli di un’altra epoca, ma non certo collusi col malaffare.

Così, tra assemblee autoconvocate, documenti e lettere dai toni infuocati, sul banco degli imputati è finito il commissario Matteo Orfini, esecutore materiale della cacciata del marziano su chiara indicazione – ma diciamo pure su ordine – del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che dell’ex primo cittadino della Capitale non è mai stato un grande ammiratore. Orfini, che è anche il presidente del PD, paga oggi una serie di errori, sia nella gestione del commissariamento che nel rapporto di mediazione che avrebbe dovuto svolgere con il sindaco, la giunta, il consiglio comunale.

L’ex segretario della sezione Mazzini, già allievo prediletto di Massimo D’Alema, dal suo maestro sembra aver appreso bene un certo opportunismo nel sapersi “posizionare”, ma non le indiscusse – e talvolta “diaboliche” – capacità diplomatiche. Nella sua opera di “normalizzazione” del partito romano, sfregiato e umiliato da un’inchiesta che parla di malaffare ma anche di neofascisti e di mafiosi, aveva commissionato l’ormai celebre relazione di Fabrizio Barca, il quale – utilizzando un metodo scientifico e forse in alcuni casi poco elastico – aveva prodotto una mappatura di tutti i circoli romani, dividendoli in categorie di “utilità” e di “bontà”. Contemporaneamente, aveva delegato ai Giovani Democratici di Roma (fedeli alla sua corrente, i cosiddetti Giovani Turchi) il compito di passare a setaccio tutti gli iscritti del partito cittadino, per localizzare le pericolose “truppe cammellate”.

In quei giorni, più di un maligno già mugugnava: “ma il tesseramento dei Giovani Democratici – che pagano una quota tessera di 5 euro invece che 30 e gestiscono tutto in maniera autonoma senza spesso comunicare nulla agli stessi circoli – chi lo controlla? I cammelli più piccoli sono meno cammelli degli altri?” E ancora: “Non sarà che Orfini vuole approfittare della sua posizione per favorire la sua corrente? O forse qualcuno da lassù ha ceduto al ‘Matteo rosso’ i “diritti” sul simbolo del Pd all’interno e nelle zone limitrofe al G.R.A.?”

Lasciando ai maligni il ruolo di malignare, c’è un fatto innegabile. Orfini, che sia in buona o cattiva fede, ha di fatto azzerato tutto il partito romano, senza prendere minimamente in considerazione il rapporto Barca, che a questo punto è “servito” solo a far scrivere ai giornali qualche titolo reboante sul partito “pericoloso”, quello dove non c’è più politica ma solo “potere per il potere”. Il commissario ha messo tutti sullo stesso piano, come se il Pd a Roma – dal primo all’ultimo iscritto – fosse composto solo da disonesti, da signori delle tessere e delle preferenze e da dirigenti incapaci che non pagano gli affitti delle sedi o se le fanno pagare da qualcuno in cambio di sudditanza. Una narrazione decisamente ingiusta e riduttiva, specie per tutti quei volontari – e sono tanti – che negli anni avevano cercato di combattere questi fenomeni scontrandosi contro le artiglierie pesanti del malaffare e uscendone ovviamente sconfitti.

Ci sono poi gli errori nella gestione del rapporto con l’ex amministrazione. Anche in questo caso, la logica del controllo ha preso il sopravvento su quella di una collaborazione fruttuosa. Un caso su tutti: la designazione di Stefano Esposito assessore ai trasporti. In tutta la storia dell’umanità, non si era mai visto un politico in grado di accumulare più gaffe del senatore torinese nel giro di così poche settimane. I maligni di prima avevano cominciato a sospettare che fosse stato messo lì per far implodere la giunta, una sorta di boicoittaggio studiato.

Ora Orfini si trova a dover commissariare a tempo indeterminato un partito dove regna l’anarchia, dove ormai sono sempre di meno quelli che lo considerano figura di garanzia e dove di programmi e di politica non si parla più da lungo tempo. Un partito dove capibastone e bande sono ancora lì, silenti, pronti a rimettersi in gioco approfittando del caos generale. Un partito che (escludendo eventuali forzature che scatenerebbero un putiferio), in primavera dovrà presentarsi ai romani con un programma chiaro, un candidato credibile e autorevole e dei volontari pronti ad “uscire dal campo con la maglietta sudata”, anche dopo aver incassato una sonora sconfitta.

Qualcosa dovrà inventarsi il mite “Matteo rosso”, se non altro per non dare occasione a quei soliti maligni di poter dire che Roma, la Capitale d’Italia, è già vittima predestinata immolata sull’altare di quell’altro Matteo, quello che cambia colore all’occorrenza ma che nella città eterna non fa grandi proseliti. Anche perché, nel frattempo, sia i sondaggi pubblicati che quelli riservati danno il Pd in caduta libera (sarebbe strano il contrario) e c’è chi addirittura prospetta un ballottaggio tra il Movimento 5 Stelle (oggi ampiamente primo partito a Roma) e lo schieramento di centrodestra. Ovvio che si tratta di proiezioni che vanno prese con le molle e che la scelta di un buon candidato potrebbe cambiare il quadro, ma oggi questa è la griglia di partenza.

Il commissario romano, per non perseverare nell’errore, si dovrà ora conquistare la fiducia del suo partito sul campo, una fiducia che un ruolo calato dall’alto non garantisce e non può tantomeno imporre. È ancora in tempo per correggere il tiro e ha gli strumenti per farlo, a cominciare proprio dal lavoro di Fabrizio Barca dove c’è il problema, ma c’è anche la possibile soluzione. In fondo, il suo “rottamato” maestro dovrebbe avergli trasmesso una grande verità: i generali senza esercito non vanno molto lontano.

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