Roma

Belli, Gramsci e la fine d’anno a Roma

31 Dicembre 2019

«La cultura è una cosa ben diversa» scriveva Gramsci nel 1916. E aggiungeva: «È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri».

Mi tornava in mente, in modo ovviamente confuso, l’altra sera, al Teatro Argentina, ascoltando Massimo Popolizio e Valerio Magrelli dare voce a Giuseppe Gioachino Belli, il poeta di Roma.

Mi veniva in mente perché la sala dell’Argentina era stracolma come non mai: tanti spettatori, giovani e anziani, vecchi abbonati (qualcuno citava Popolizio nel Peer Gynt, visto tanti anni al Teatro Centrale, ora trasformato in un bar), diverse generazioni di operatori e direttori artistici (da Roberta Carlotto a Giorgio Barberio Corsetti, da Claudio Longhi a Antonio Calbi), e poi attorici, attori, scrittori, giornaliste, critici e tanta gente, su fino all’ultimo ordine di galleria.

Tutti raccolti, richiamati certo dai sonetti del Belli – chi non li ama? – ma attratti anche dalla presenza carismatica, dalla voce di Popolizio e dalle argute, partecipi riflessioni di Magrelli. Un attore e un poeta. Sul palco, seduti a due tavolacci, Popolizio e Magrelli invitano a un viaggio nelle parole e nel mondo di Gioachino Belli.

 

Massimo Popolizio

 

E lui, il Belli, “Peppe er Tosto” come lo chiamò anni fa un regista come Simone Carella, prende subito il suo spazio, con quella unica, sferzante capacità di dire il mondo. E la voce di Massimo Popolizio riecheggia la quotidianità romana: pare proprio che il suo percorso registico di questi anni – da Plauto a Pasolini – abbia sottotraccia la volontà di un confronto profondo con Roma, le sue anime, il suo lessico, le sue sonorità. Così, ecco che Belli si invera al suo meglio, con quel sapore, quella “grana della voce” – come avrebbe detto Barthes – che è specchio della città. Roma è lì, in quegli endecasillabi geniali. E Valerio Magrelli, con garbo e sincera adesione, spiega, illustra, amplia, contestualizza.

Non è un gioco, né uno sterile divertimento. Anzi. Perché, nello spettacolo-lettura prodotto dal Teatro di Roma,  attorno a questi due protagonisti, l’altra sera, si è idealmente, simbolicamente, stretta la città: quasi che, per salutare questo anno complicato – come sono tutti gli anni – facesse bene stare assieme, tornare alla poesia, al teatro, al commento critico.

Sopravvaluto l’evento? Non so: la crisi di una città ha bisogno anche di risposte simboliche. Mi piace pensare che all’Argentina sia accaduto qualcosa di simbolico, che ci si sia infine ritrovati. Quasi che ci fosse, condiviso davvero, quel bisogno di “organizzare”, di riflettere sul “valore storico”, sulla funzione nella vita. Sui diritti e i doveri.

È azzardato mettere assieme Belli e Gramsci? Probabilmente sì.

Ma mai come oggi la città, in questo capodanno che pre-annuncia “la Festa di Roma”, ha bisogno di ritrovare la serenità del pensiero e dell’incontro. Città scossa, anche nell’ultimo anno, dagli scandali, da spaccature, crolli, da strade buie, pericolose e da morti annunciate; città travolta dallo spaccio, dall’incuria, dall’arroganza, dal pressappochismo e dall’opportunismo. Difficile non mettere tutto assieme, quando si fanno i bilanci.

Lo sappiamo, come lo sapeva bene il Belli: sembra che nulla, o quasi, sia cambiato dai suoi tempi. I sonetti cinici, erotici, volgari, ironici, rivoluzionari e reazionari, anticlericali e blasfemi, sono un ritratto che valeva allora come vale oggi. Viviamo sempre in attesa che qualcosa cambi, di un segno di reazione o di ripresa, mentre Roma declina inesorabile verso la clamorosa fine, sempre rinviata. Ogni anno ci chiediamo se sia possibile far peggio.

Eppure l’altra sera, in chiusura d’anno, in quella sala dell’Argentina, ho avvertito – forse sbaglio – un rinnovato senso d’appartenenza, una voglia di ridare centralità alla cultura come condivisione. Attraverso quei due signori là, in maniche di camicia, sul palco, diversi tra loro ma ugualmente divertiti nell’affrontare Belli, e attraverso il caustico e comprensivo sguardo del poeta di Trastevere, ecco che Roma emerge, ancora una volta, bellissima e disperata, decadente e corrotta, malata e stanca, indolente e rassegnata, menefreghista e cazzona, eppure unica, vera, viva.

Mi pare quasi, e voglio prenderlo come un augurio di buon anno, che questa forza del teatro, questa capacità di dare voce e far incontrare la gente, questa innegabile e miracolosa arte della dialettica e dell’ascolto, che sera dopo sera porta la gente in sala, sia il bene prezioso – antico e modernissimo – da portare con noi nel 2020.

Una serata semplice, affidata a un Attore e a un Poeta.

Mi voglio illudere che queste due figure, assolutamente marginali nelle economie del mercato, decisamente trascurate e inascoltate dalla politica, reietti dal Capitale, inutili ai BigData, possano invece rivendicare e ritrovare la centralità sociale, culturale, intellettuale che meritano.

«Il teatro – scriveva, più o meno, un intellettuale anticonformista qual era Nicola Chiaromonte – come tutto nella vita, si tratta di farlo o di subirlo». Ecco: non solo algoritmi, alzate di sipario, dati, numeri, imprese. Ricominciamo, proviamo tutti assieme, a fare teatro, a fare poesia e dunque a fare politica. In fondo, il grido del Belli era un grido anarchico. Di libertà, di rivolta.

 

 

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