Roma

Anche senza la mafia la politica romana ha poco da festeggiare

21 Luglio 2017

I volti tirati della procura e quelli arzilli degli avvocati di Massimo Carminati. Il «Cecato» è stato appena condannato a 20 anni, ma senza l’accusa più infamante, quella di associazione mafiosa che per due anni e 7 mesi lo ha relegato in regime di massima sicurezza a Parma. In carcere rimane lui, il suo braccio destro Riccardo Brugia, Salvatore Buzzi, lo «Spezzapollici» Matteo Calvio e Fabrizio Franco Testa, l’uomo del litorale.  Gli altri per ora tutti fuori. Anche l’ex consigliere regionale Luca Gramazio che accede agli arresti domiciliari: potrà conoscere per la prima volta il figlio che non ha mai visto, nato durante la sua detenzione un anno e mezzo fa. L’aula bunker di Rebibbia è piena: c’è anche la sindaca Virginia Raggi, che siede vicino all’ex capo dell’avvocatura capitolina Rodolfo Murra, con cui in passato non sono mancati i contrasti sul caso Marra. L’ex direttore generale di Ama Giovanni Fiscon è commosso e riceve pacche un po’ da tutti. «Non posso dire quello che ho provato nel momento della lettura della sentenza». E’ appena stato assolto, anche se per un reato gli atti saranno nuovamente trasmessi alla procura. Carlo Maria Guarany, il braccio destro di Buzzi, ha gli occhi lucidi. Nel processo lui si è difeso senza difendersi, prendendo le distanze da Buzzi. Uno dei suoi testimoni principali è stato il figlio che in aula ha parlato della devozione cattolica del padre. Guarany era detenuto in carcere, poi, dopo alcuni problemi di salute, è finito in un monastero. Per tutta la durata del processo ha attraversato la città con i sandali ai piedi. Lo ha fatto quattro volte alla settimana per raggiungere la periferica aula bunker di Rebibbia. Ma la penitenza alla fine ha dato i suoi frutti: erano 19 gli anni chiesti dalla procura, sono diventati 5 quelli della condanna.

A conti fatti ha vinto la dottrina di Raffaele Cantone. Il presidente dell’autorità nazionale anticorruzione venne chiamato a testimoniare lo scorso 15 settembre dai legali di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi e Piergerardo Santoro. E rispondendo alle domande si sbilanciò: «Posso escludere ad oggi di avere mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis, cioè l’associazione di stampo mafioso». Cantone ovviamente parlava senza conoscere le carte dell’inchiesta e dopo aver capito di essersi spinto oltre, corresse il tiro delle sue parole. Ma la decisione della X sezione penale, di fatto, conferma la sua intuizione. Dentro Mafia Capitale agivano due distine associazioni a delinquere semplici. Una con base al benzinaio di Corso Francia, dove Massimo Carminati dava appuntamento ai suoi. L’altra, sempre capitanata da Carminati, che attraverso le coop di Salvatore Buzzi cercava di accaparrarsi gli appalti pubblici. Ma la mafia no, non c’è secondo i giudici. O forse era troppo difficile da dimostrare. E quella linea che doveva tenere insieme il mondo di Carminati, quello della strada, delle estorsioni e dell’usura, con quello degli appalti pubblici si è sfibrata già al primo grado di giudizio.

Una mafia senza armi, senza morti. Che non commercia droga. A Carminati non è mai piaciuta, nonostante le accuse di uno dei principali accusatori dell’indagine lo skipper Roberto Grilli, una delle figure più ambigue di tutto il processo. Nel 2011 viene arrestato mentre trasportava 500 chili di cocaina sulla sua barca. E decide di collaborare con la giustizia. In un verbale del dicembre 2014, Grilli collega Carminati al suo traffico di stupefacenti. Poi però, una volta chiamato in aula in veste di testimone dalla procura, nel giugno 2016, ritratta tutto. Il suo avvocato Alessandro Capograssi, lo stesso di Maurizio Abbatino, il pentito della banda della Magliana, vede revocarsi l’incarico in aula. E Grilli scarica tutto su lui. «Non è vero che Carminati fosse collegato alla mia attività di traffico di droga. Quelle che ho reso sono dichiarazioni orchestrate dal mio legale per avere la protezione, un passaporto per rifarmi una vita. E’ stato lui a dirmi di mettere più carne al fuoco possibile su Carminati».

Il colpo di scena dura poco, però. A sorpresa, infatti il pm Luca Tescaroli tira fuori un’intercettazione di 10 giorni prima, in cui Grilli annuncia al suo nuovo legale la sua strategia difensiva. «Mi divertirò a dire che tutto quello che ho detto mi è stato detto di dirlo. Io lo so di chi stiamo parlando. Stamo a parlà di Carminati. Se confermo queste cose, io durerò una settimana là fuori. Forse dieci, quindici giorni». Per l’accusa, quell’audio rubato di Grilli è la prova della capacità intimidatoria esercitata da Carminati, essenziale per dimostrare l’impianto accusatorio dell’associazione mafiosa, che si regge sull’omertà tanto dei sodali quanto delle vittime, molte delle quali in aula hanno ritrattato le accuse. Grilli parla da uomo morto per aver accusato Massimo Carminati. Ma a poche settimane dalla chiusura del processo, il 17 giugno 2017, partecipa come concorrente alla trasmissione «Caduta Libera» di Gerry Scotti. «Mi chiamo Roberto vengo da Roma e faccio l’agente immobiliare», dice lo stesso uomo che fino a pochi mesi prima temeva per la sua incolumità.

Delle tante anomalie, che hanno caratterizzato le fasi del processo, questa forse è la più eclatante. Perché se il principale accusatore del capo di un’associazione mafiosa si ritrova a gigioneggiare in televisione di fronte a milioni di italiani c’è qualcosa che non va. Certo, ogni discorso è prematuro prima delle motivazioni. Ma allo stesso modo è significativo che per due degli esponenti di spicco del sodalizio, i calabresi Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo, considerati l’anello di congiunzione fra il Mondo di Mezzo e la ‘ndrangheta, sia addirittura arrivata l’assoluzione. Nella macchina di uno di loro era stato trovato dell’olio per lubrificare le armi. Così diceva l’accusa. Lui invece spiegò che gli serviva per pulire gli attrezzi da lavoro. Faceva il giardiniere al Verano e ogni mattina usciva di casa alle 5. 

Rimane il marcio della politica dal Pd al centro destra. Un mare di corruzione e clientelismo a tutti i livelli che parte dagli anni di Gianni Alemanno, imputato in un altro filone dell’indagine, e arriva fino all’esperienza di Ignazio Marino. Funzionari, dirigenti e politici.  E’ il male di Roma e del paese, come nel caso della gestione dei migranti, che rischia però di essere sommerso dalle polemiche di chi utilizzerà strumentalmente la sentenza di ieri per riabilitare il passato. Sbagliando. Perché, invece, proprio su questo punto la X sezione penale ha confermato il lavoro degli inquirenti, aumentando le pene rispetto alle richieste della procura in alcuni casi. A nessuno dei politici coinvolti, tranne Gramazio, veniva contestata l’associazione mafiosa, neanche prima della sentenza. Andrea Tassone, l’ex presidente del municipio di Ostia è stato condannato a 5 anni e Mirko Coratti, ex presidente dell’assemblea capitolina a 6. Per il re dei bancarellari Giordano Tredicine gli anni sono 3 mentre Pierpaolo Pedetti ne dovrà scontare 7.

Anche Luca Odevaine, il facilitatore che faceva da tramite fra le coop di Buzzi e il Viminale per la gestione dei migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione, che sono divenuti 8, ritenuta la continuazione rispetto alla pena già inflitta da due precedenti sentenze. Da Buzzi era stipendiato con 5mila euro mensili, ma una volta esplosa l’indagine era stato uno dei pochi a collaborare sin da subito con gli inquirenti. Complessivamente sono 250 gli anni di carcere inflitti dal tribunale. E anche se è crollata l’accusa più grave, rimane tutto il resto. Il mare di soldi con cui Buzzi ha inondato tutta la politica romana e nazionale: almeno 400mila euro in chiaro fra il 2013 e il 2014 e 750mila euro in nero. Ma soprattutto le corruzioni o le turbative d’asta con cui sistematicamente venivano pilotati gli appalti. E l’omertà di molti dei testimoni che nelle oltre 220 udienze hanno affollato l’aula bunker di Rebibbia. Gli stessi che chiamavano Buzzi quando c’era da finanziare una campagna elettorale o da assumere qualcuno. E oggi magari tirano un respiro di sollievo di fronte ad una bolla di sapone che tale non è.

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