Partiti e politici
I Pm cercano la verità sul ricatto di Marra a Virginia Raggi
Per molti, all’interno del Movimento 5 Stelle l’epilogo era quasi scontato, l’unico possibile, dopo l’arresto di Raffaele Marra lo scorso dicembre. Che l’ex direttore del personale, tuttora in carcere con l’accusa di corruzione, avrebbe finito per trascinare nel suo pantano giudiziario anche la sindaca Virginia Raggi era un’ipotesi più che probabile. Ma chi poteva fare qualcosa, a partire da Beppe Grillo o Davide Casaleggio, ha preferito prendere tempo, alzando di volta in volta l’asticella della tolleranza. Fino ad arrivare, quasi, al punto di rottura.
Perché non basta continuare ripetere che la ”Raggi ha ammesso l’errore di essersi fidata della persona sbagliata”. O almeno non serve più. Soprattutto ora che la sindaca di Roma si ritrova indagata per abuso d’ufficio e falso per aver nominato Renato Marra, fratello di Raffale Marra, a capo del dipartimento turismo. Secondo i pm, che l’hanno convocata per il prossimo 30 gennaio, Virginia Raggi, utilizzando la modalità dell’interpello nella selezione del dirigente, non avrebbe fatto “una valutazione comparativa dei curricula”, procurando così un “ingiusto vantaggio di fascia retributiva” a Renato, che nel nuovo ruolo avrebbe guadagnato circa 20 mila euro lorde in più. Inoltre, Raffaele Marra (accusato di abuso di ufficio), in qualità di capo del personale avrebbe dovuto astenersi dalla nomina del fratello per evitare un “possibile conflitto di interessi”, ma, come dimostrano diverse chat Telegram acquisite agli atti, questo non sarebbe avvenuto, anche se la Raggi (e per questo viene accusata di falso) assicurò in una nota al responsabile anticorruzione capitolino Mariarosa Turchi che il ruolo suo ruolo fu esclusivamente ” di mera e pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte”.
La sindaca, che dal suo profilo Facebook ha di fatto preannunciato la sua vicenda giudiziaria, si dichiara “pronta a dare ogni chiarimento”. E di sicuro, i pm che indagano sull’inchiesta, da lei si aspettano un contributo decisivo anche per ricostruire gli effettivi rapporti di forza che governavano il suo rapporto con Marra e le modalità con cui l’ex direttore del personale sia stato in grado di ritagliarsi un ampio potere nella macchina amministrativa capitolina in così poco tempo. “Parliamo di una nomina che è stata revocata, non di soldi rubati”, ha provato a minimizzare ieri sera Alessandro di Battista ospite di La7. Ma il rischio, se l’ipotesi investigativa fosse corroborata dall’evidenza delle prove, è che la sindaca già nei prossimi mesi si possa trovare sotto processo con giudizio immediato, con la possibilità che un’eventuale condanna faccia scattare la legge Severino che prevede la sospensione dall’incarico per almeno 18 mesi dell’amministratore pubblico condannato in primo grado per determinati reati fra cui l’abuso di ufficio. L’alternativa presa in considerazione per evitare questa eventualità, sarebbe quella di autosospendersi, come ha fatto Sala a Milano, e patteggiare la pena, lasciando spazio nel frattempo ad un altro esponente del Movimento 5 Stelle che agirebbe al suo posto in qualità di vicesindaco (il nome più gettonato è quello di Marcello De Vito). Ma in ogni caso, è evidente, l’asticella si alzerebbe sempre di più, trasformando una vicenda già ingestibile, in una possibile catastrofe politica.
Beppe Grillo lo sa, per questo ha deciso di correre ai ripari, dettando la nuova linea politica. Da ieri tutte le uscite comunicative dei portavoce (partecipazioni a eventi, interviste alla tv, interviste ai giornali, post sui social network riguardanti l’azione politica del MoVimento 5 Stelle e simili) dovranno essere concordate insieme ai responsabili della comunicazione, allo stesso Grillo e a Davide Casaleggio. E se l’obiettivo è più che nobile, “evitare di “danneggiare l’immagine del Movimento 5 Stelle”, in sostanza, quello varato, è un vero e proprio codice di autocensura, una pratica che i “romani” del Movimento hanno imparato bene da quando governano la città. Da mesi, infatti, le polemiche interne sulla gestione del Campidoglio hanno bloccato l’attività sui territori dei parlamentari e ridotto al minimo gli interventi sui social network, soprattutto di coloro, quasi tutti i più importanti esponenti romani, che avevano violato la regola principale della Roma a 5 Stelle: chi tocca Marra, poi “muore”.
E’ successo alla deputata Roberta Lombardi, la prima ad aver sollevato perplessità sul passato alemanniano del dirigente capitolino. E lo stesso è capitato a Carla Ruocco, come ai membri del minidirettorio romano Paola Taverna e Gianluca Perilli, che avrebbero dovuto supportare la sindaca, ma presto ne hanno preso le distanze. Anche chi non proveniva dal Movimento 5 Stelle, ma aveva deciso comunque di mettersi a disposizione, come l’ex assessore Marcello Minenna, l’ex capogabinetto Carla Romana Raineri o l’ex capo del personale Laura Benente, dopo i contrasti con Marra si è ritrovato costretto a togliere le tende. Tutto questo fino al giorno del suo arresto, a dicembre, prima che la ruota cominciasse a girare al contrario, iniziando ad investire ad uno ad uno i corpi più vicini. Da Daniele Frongia, portato a rinunciare alla delega di vicesindaco. Al funzionario capitolino Salvatore Romeo, non più caposegreteria. Fino a Renato Marra, nominato a capo del dipartimento turismo e revocato dopo l’arresto del fratello. Ora non rimane che Virginia Raggi, la più difficile da sacrificare, perché con lei svanirebbe il sogno della capitale d’Italia a 5 Stelle. “Vediamo che succede”, continuano a dire dalle parti alte del Movimento per non prendere decisioni drastiche. Ma ormai lo ripetono da mesi.
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