Medio Oriente
Terrorismo e psicosi nella televisione italiana
Il giornalismo televisivo, davanti al terrorismo, è in difficoltà. Lo è innanzitutto perchè deve ridursi a chiamarlo così, rievocando negli occhi di guarda un orrore cieco, che induce alla fuga o alla risposta avventata, piuttosto che alla riflessione ed alla ricerca delle cause di una tendenza storica della quale, una volta individuato l’inizio, è quasi impossibile vedere la fine.
È già passata una settimana dagli attentati parigini, e non è stata una settimana tranquilla. Quasi quotidianamente nella capitale francese si è sparato: nei giorni successivi le forze dell’ordine si sono addentrate nel labirinto delle banlieue per stanare colpevoli sopravvissuti, mandanti – come Abaaoud – e a cadenza irregolare ci sono state crisi di panico dovute ad accoltellamenti, episodi di violenza riconducibili allo Stato Islamico.
È difficile non rivolgersi ai centri di informazione tradizionale quando di mezzo c’è un attentato terroristico: mezzi alternativi come YouReporter e Periscope hanno la loro ragion d’essere nei limiti che la televisione offre, ma restano paralizzati quando il live-reporting richiederebbe che gli utenti si lanciassero in zone che definire “di guerra” non è esagerato. A guardarlo da fuori, il quartiere di Saint-Denis venerdì scorso si sarebbe detto assaltato da un esercito – un esercito invisibile, però, che al momento delle riprese era sempre fuori inquadratura, vuoi perchè già saltato in aria per propria iniziativa, vuoi perchè quando invece era possibile realizzarne un primo piano, i proprietari di smartphone hanno saggiamente pensato a salvarsi la pelle, piuttosto che realizzare un servizio alla comunità.
La parola “terrorismo” soffre di tutti i difetti di cui può soffrire una parola. Non spiega le proprie cause, non suggerisce un sinonimo nè un contrario. Giornalisti praticamente “residenti” in zone di guerra ne tollerano a fatica l’utilizzo: questa parola, che a tutti i difetti ontologici aggiunge anche il fatto di venire abusata – il che non è mai un bene – ha però a ben vedere una qualità: mette ogni individuo di fronte ad una sensazione. Una sensazione che nessuna teoria politica di questo mondo può spiegare. Il terrore, scatenato nelle coscienze dei civili per costituire una leva nei confronti dei poteri costituzionali.
Ora, questo elemento politico – giacchè è di questo che ormai si tratta – si è infiltrato nel modo in cui gli occidentali si approcciano alla politica estera del proprio paese, con pochissime esclusioni, in occasione degli attentati dell’11 settembre. Prima di quella data, solo l’attentato ad Oklahoma City del 19 aprile 1995 si era imposto all’attenzione generale come un atto di violenza quasi bellica proprio nei confini degli Stati Uniti d’America, anche se certo non aveva nemmeno avvicinato la perfezione cinematografica della caduta delle Torri gemelle. Timothy McVeigh, l’attentatore, fu condannato alla pena di morte, e giustiziato tramite iniezione letale l’11 Giugno del 2001.
Gore Vidal, che a suo tempo si avventurò nel genere spinoso che aveva condotto alcuni tra i più grandi romanzieri americani – Mailer e Capote, per citarne altri due – a fare i conti con il Male incarnato nei massacratori della loro epoca, ebbe occasione di scrivere nel suo saggio La fine della libertà: “Perché? McVeigh ci ha raccontato a lungo riguardo alle sue ragioni, ma i nostri governanti e i loro mezzi di comunicazione hanno invece preferito dipingerlo come un sadico mostro impazzito.”
Vidal aveva capito che solo dedicare del tempo alla spiegazione di un problema – anche degli imperscrutabili motivi per cui impazziscono i pazzi – può fornire ai consumatori un’arma contro l’ignoranza che la violenza presuppone e propaga. Altrimenti vittime del terrorismo sono tutti coloro che sopravvivono: è a loro che era rivolta la catastrofe hollywoodiana dell’11/9, ed è a loro che è rivolto il massacro parigino – e in generale tutti quelli che, con un pubblico più o meno grande, si succedono nel mondo intero. Tra coloro che sopravvivono, ci sono anche i giornalisti. Nei reportage di coloro che, armati di telecamera, fuggivano in tutte le direzioni per paura che un altro “mostro sadico” si materializzasse, armato di AK-47, e ricominciasse a mietere vite umane si indovina l’orrore davanti al quale si ammutolisce, e si scappa.
A chi si picca di narrativa americana, questo sentimento di sorda paura ricorderà il capolavoro di Don DeLillo L’uomo che cade, in cui i bambini si dedicano ad esaminare il cielo di New York con il cannocchiale, una febbrile attività collegata ad un segreto che circola tra loro, il segreto di Bill Lawton, dietro il cui criptico nome non si cela altro che bin Laden, il cui nome i bambini avevano udito ma non compreso dai notiziari di tutte le ore. Il mondo intero, di questo passo, finirà per passare le giornate a guardarsi intorno diffidente, in metro, sul bus, per strada. Secondo le parole di Michel Houllebecq, questo a Parigi succede già. Lunedì sera, a Londra, a pochi metri da me una ragazza è scoppiata a piangere perchè il vento, che spazzava Leicester Square con una violenza inaudita, aveva sbattuto a terra alcuni sostegni d’acciaio – a dire la verità abbastanza pesanti – recanti scritte le offerte del giorno di un pub. Temeva succedesse qualcosa di ben più grave. In poche parole, il terrorismo è uno dei pochi fenomeni incapaci di condurre ad una risposta costruttiva. È seguito da una sola parola di senso compiuto. Psicosi.
Perchè a quel punto, poteva succedere ovunque, ed in qualunque momento. Nei giorni successivi all’attentato, chi scrive era a Londra. C’erano persone che cercavano su Google “IS London,” ovviamente non per arruolarsi in una cellula, ma per sapere se per caso la Transports of London avesse consigliato di astenersi dal prendere la metropolitana ad una certa ora del giorno, o ad una certa stazione. Tornato in Italia, ecco scatenarsi allarmi in successione: in questi ultimi giorni ii treni sono stati fermati più volte durante la giornata, per via di allarmi vari. In Belgio, addirittura, è stato scambiato per un sospetto terrorista il giocatore della Roma Radja Nainggolan.
La psicosi fa saltare il banco. Ammesso che esista una verità, e che per la crisi mediorientale valga l’approccio cartesiano per cui dato un problema esiste anche una sua soluzione, andrebbe cercata nelle tinte intermedie. Bene, queste sono le prime vittime che il terrorismo fa, cessati gli spari. Rimangono il bianco e il nero. Il bianco è la paralisi totale. Il nero è l’interventismo militare. Una parte del giornalismo televisivo, che ha perso l’esclusiva dell’opinione nel momento in cui i lettori – o i consumatori di notizie tout court – hanno smesso di dover mandare lettere ai giornali per poter dire la loro sulla piazza nazionale, ha inseguito chi in tutta Italia si è abbandonato a commenti ferocemente razzisti, e per qualche giorno si è avuta l’impressione che l’inoffensività della stragrande maggioranza dei musulmani potesse essere messa in dubbio. C’era addirittura chi correva dietro al primo essere umano di aspetto semitico per chiedergli se intendesse dissociarsi dagli eventi recenti1.
La mia indignazione scaturisce proprio dalla manifesta intenzione della televisione di ignorare le variegate cause dell’emergenza, e fare spettacolo dei mostri con la scusa del fare luce nell’antro tenebroso della pancia popolare. Mettere un osservatore televisivo di fronte al mostro significa rassicurarlo, anche se non sembra: di fronte agli attentatori suicidi, ai dittatori sanguinari, ai mandanti che fuggono braccati come topi in squallidi quartieri di periferia, lo spettatore non è mai messo di fronte al vero problema. A chi ha sostenuto l’idea che probabilmente “la guerra all’ISIS” – non meglio specificata – è una soluzione per ora piuttosto semplicistica, è stato sbattuto in faccia il volto tetro di Neville Chamberlain, reduce dai primi sue due viaggi in aereo e, en passant, uno schiaffone diplomatico ricevuto da Hitler in occasione dei momentanei accordi di pace di Monaco, nel 1938. C’è stato chi ha evocato Churchill, che pronosticò all’Inghilterra e alla Francia un altro conflitto, con le parole “Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra.”
Se questa sia inevitabile, si vedrà: le guerre inevitabili hanno la brutta abitudine di accadere, ed allora ci verrà presentata come l’unica soluzione possibile. In vista di una simile eventualità, è fastidioso che l’unico richiamo storico sia Hitler – e con lui tutte le possibile reincarnazioni dell’Anticristo – senza che nessuno faccia lo sforzo extra di ripetere da quali circostanze politiche ed economiche Hitler sia venuto fuori.
I leaders mondiali riuniti a Parigi l’11 gennaio saranno chiamati in futuro ad esprimere una linea politica che influenzerà la vita di miliardi di persone. È pronto, l’elettorato moderato, a giudicare l’operato dei suoi rappresentanti, a censurarne le azioni se necessario, senza farsi abbindolare dalla retorica, dall’armatura lucente di cui i “difensori” dell’Occidente potrebbero volersi rivestire?
Ma soprattutto è pronta, l’informazione, a “monitorare i centri del potere” – giacchè questa è la sua funzione secondo Amira Hass, reporter israeliana in forza presso Ha’aretz, in prima linea nella copertura dei territori palestinesi occupati – e a creare nei ragazzi di oggi gli elettori informati di domani? Senza entrare nei particolari, va detto che l’instabilità dei territori che oggi sembrano in preda alle convulsioni risale a quasi un centinaio di anni fa, e che non accenna a finire. Il retrocopertina del capolavoro di Robert Fisk Cronache mediorientali recita: ‘In Medio Oriente, a volte si ha la sensazione che nessun evento della storia abbia mai un orizzonte finito, che non si volti mai pagina e non arrivi mai il momento in cui poter dire: “Adesso Basta”.’
Adesso che questa instabilità si è infilata di soppiatto nella nostra vita, è possibile rimuoverla solo con il coraggio di guardare alle cose nel loro insieme. Se tardiamo a farlo, rischiamo di crescere una generazione di ragazzi abituati alla “diffidenza” di cui parlava Houellebecq.
Una responsabilità enorme, un costo umano che nessun leader democratico sano di mente vorrebbe pagare.
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