Letteratura
Raccontare il passato per avvicinarsi al presente. Intervista a Anne Berest
La Cartolina, finalista al premio Goncourt, ripercorre la storia di una famiglia ebrea dal 1919 ai giorni nostri, toccando cinque generazioni e spostandosi fra Russia, Palestina, Francia, Polonia, Lettonia e uno spettro ancora più ampio di lingue: l’anima cosmopolita della Mitteleuropa, intrecciata a un antisemitismo costante, che ha nella Shoah il suo atroce picco.
L’autrice francese Anne Berest, ebrea di sangue ma non di educazione, si trova a ripercorrere la vita dei suoi antenati e a riavvicinarsi alla propria cultura dopo aver ricevuto una misteriosa e sinistra cartolina con i nomi dei bisnonni e prozii morti ad Aushwitz. Ricostruisce le loro esistenze attraverso documenti e diari ritrovati e porta avanti la sua indagine, serrata come in un romanzo giallo, andando a interrogare i sopravvissuti. Si delinea così un grande romanzo storico intrecciato però profondamente con il presente: l’antisemitismo di oggi e il razzismo di oggi sono in dialogo con un passato che si rivela molto più vicino di quanto sembri.
C.O. Se la prima generazione è quella dei testimoni diretti, la seconda, quella dei figli, è stata la generazione del silenzio. È la terza generazione, ora, che si trova a raccontare, a fare l’Haggadah della Shoah.
A.B. È esattamente come dice. La prima generazione era la generazione dei testimoni. E i testimoni hanno avuto molta difficoltà a parlare e a essere ascoltati perché la loro parola aveva qualcosa di sacro. Dovevano essere loro a parlare e nessun altro poteva farlo al loro posto. Finché erano in vita era difficile autorizzarsi a parlare, quindi la seconda generazione ha preso poco la parola, anche in ambito artistico. È una generazione che ha subito il silenzio e la sofferenza dei genitori. Così la nostra generazione, la terza, arriva a un momento in cui i testimoni diretti stanno morendo, quando ho iniziato a scrivere era appena mancata Simone Veil. La nostra generazione quindi non solo sa di essere autorizzata a prendere la parola ma sa di doverlo fare: ne ha la missione ora che i testimoni stanno scomparendo. Se noi non riprendiamo questa Storia, chi lo farà? Però, siccome non siamo i testimoni, dobbiamo raccontarla in un altro modo. Io l’ho fatto attraverso la storia della mia famiglia ma anche raccontando cosa vuol dire essere terza generazione.
Infatti riporta molto l’esperienza del nazismo e dell’antisemitismo al presente. Gli immigrati, gli “stranieri” di oggi tornano più volte come riferimento.
All’inizio volevo che il libro parlasse solo del presente, della mia ricerca, ma la ricerca prendeva moltissimo tempo, con tanti tempi morti e quindi ho avuto l’idea di immergermi anche nel passato e raccontare la storia della mia famiglia. Volevo raccontare cosa volesse dire essere terza generazione e svelare con sincerità tutte le mie emozioni. E in quanto nipote di immigrati, perché la mia famiglia è emigrata in Francia, non posso non immedesimarmi nelle storie di immigrazione di oggi. In Francia abbiamo un detto che è “nella comparazione non c’è ragione”, ed è vero, non si può “paragonare”. Però ci si può immedesimare nell’altro.
È interessante vedere il fastidio che, molti anni dopo essere arrivati in Francia, i protagonisti del romanzo, e soprattutto il suo bisnonno Ephraim, provano nei confronti dei “nuovi” immigrati ebrei.
Loro sono immigrati in Francia alla fine degli anni ’20 e hanno voluto assolutamente integrarsi e diventare più francesi dei francesi. Quando a partire dal ’32 e soprattutto dopo la Notte dei Cristalli molti ebrei hanno cominciato ad emigrare in Francia, chi era arrivato prima e si era integrato aveva paura di essere stigmatizzati come stranieri per “colpa” di questi nuovi arrivi.
La Francia è stata in diversi momenti grande meta di immigrazione.
Sì. Era un paese molto favorevole agli ebrei in termini di leggi, rispetto al resto d’Europa e poi c’era stato l’Affaire Dreyfus che aveva avuto grande risonanza in tutta Europa. Era un paese in cui un ebreo sconosciuto qualunque poteva venire salvato dall’intellighenzia francese: sembrava un sogno. C’era addirittura un proverbio yiddish che diceva “felice come un ebreo in Francia”: nessuno si sarebbe immaginato quello che è venuto dopo. Non ci si immaginava che in realtà ci fosse un antisemitismo così forte.
L’identità religiosa, allora ma anche oggi, per lei e per sua figlia, sembra passare (soprattutto per gli ebrei laici) dagli insulti degli altri, dalle pietre lanciate. È un’identità fatta dagli altri?
Questa è la grande tesi sartriana. Sartre scrisse un testo molto importante su questo in cui diceva che l’ebreo è sempre ebreo nello sguardo degli altri, è definito dagli altri. Un aspetto molto particolare dell’ebraismo è che si può essere ebrei senza praticare la religione, perché si nasce ebrei. Il mio proposito era di chiedermi perché io – che non sono religiosa e nemmeno conosco la cultura ebraica, fino a poco tempo fa non ero mai nemmeno entrata in una sinagoga nella vita – perché io sono ebrea, cosa mi qualifica come ebrea? Il percorso del libro doveva portarmi a saper rispondere a questa domanda: “sono ebrea perché…”.
Lei ha fatto questo percorso, che né sua nonna né sua madre avevano fatto. Per sua figlia quindi sarà diverso il rapporto con la cultura ebraica?
Certo, sarà diverso, è già diverso. Io ho avuto bisogno di riallacciare i rapporti con una cultura e un’identità e ora anche se resto laica amo celebrare le feste: adesso festeggiamo Pesach, Kippur, Hannukah, così come Natale. Questa dimensione culturale che per me è importante fa sì che mia figlia cresca con questa cultura con cui io non sono cresciuta quindi lei avrà un approccio diverso al suo essere ebrea.
Si è parlato molto in Francia del rapporto tra verità e invenzione quando è uscito il romanzo di Carrère lo scorso anno. In un certo senso nel suo romanzo è tutto vero e tutto inventato allo stesso tempo.
Di solito dico che questo libro è un romanzo vero. Vero perché tutto quello racconto è veramente accaduto. Tutta la mia indagine è vera, mi sono veramente rivolta a un investigatore privato, ho incontrato un grafologo che si chiamava Jesus. Tutta l’indagine e la sua soluzione sono vere. Allora perché romanzo? Perché nel momento in cui parlo del passato do vita ai personaggi, immagino la loro voce, gli do carne, sangue, emozioni, li faccio parlare. Sono obbligata a inventare. Ma anche mia madre o mia figlia che esistono davvero diventano personaggi. Il romanzo porta necessariamente con sé una parte di invenzione, o piuttosto di interpretazione. E per quanto riguarda l’indagine, tutti gli eventi sono veri ma ho accorciato i tempi. Nel libro si tratta di quattro mesi ma nella realtà ci sono voluti quattro anni. Nel romanzo tutte le intuizioni e tutti i momenti si susseguono uno dietro l’altro, le intuizioni sono buone, o cattive ma, comunque ci sono, mentre nella realtà potevano passare mesi senza che mi venisse un’idea, senza che trovassi una pista. Nel romanzo torno nel villaggio dove i miei parenti hanno abitato e incontro in una giornata tutti i vicini che sapevano qualcosa di loro, mentre in realtà sono passati 15 anni dalla prima volta che ci è andata mia madre, e uno dei vicini l’ho addirittura sentito per telefono durante il lockdown. Ma per far funzionare il romanzo dovevano stare tutti insieme.
E la “paura” e la diffidenza, con cui venite accolte da quegli abitanti del villaggio che avevano conosciuto i suoi genitori, quelle sono vere?
Mi sono resa conto scrivendo il libro che la seconda guerra mondiale è ancora molto presente nelle nostre vite. In quel villaggio, come ovunque in Francia, c’erano state denunce. Non solo quella del sindaco verso la mia famiglia ma altre denunce, regolamenti di conti di cui non parlo nel libro perché non c’entravano. Sono ricordi molto dolorosi e la gente non ama che si venga a ficcanasare in queste cose. Da piccola mi sembrava che la guerra fosse lontanissima, più invecchio più sento che è ancora vicina. Andando in quel villaggio ho sentito come il ricordo fosse ancora vivo nelle persone.
Il racconto di suo nonno Vincente Picabia è molto intenso, soprattutto quando parla della noia verso la quotidianità che lui prova essendo cresciuto in una famiglia così particolare. Mi chiedevo se anche lei conosca quella sensazione.
No, io non ho mai conosciuto il ramo Piacabia, ma mentre scrivo su personaggi della mia famiglia a volte ho l’impressione di essere in un legame diretto con loro e di capirli in maniera intima e immediata come se li avessi conosciuti. È strano, irrazionale, ma per esempio con mio nonno ho avuto proprio delle visioni, dei momenti di contatto diretto con lui, e ho scritto delle cose che poi persone che l’avevano conosciuto mi hanno confermato, mi hanno detto che era proprio così.
Uno personaggio molto interessante è lo zio Boris. Il modo in cui si racconta il suo legame con la natura è molto attuale.
Boris è un personaggio che ho adorato, soprattutto per il suo legame con la natura. Avevo scritto interi capitoli su questo e la mia editor mi diceva “ma taglia almeno un po’!”.
Può essere un prossimo libro.
Sì! Una cosa che mi ha impressionato, a proposito di Boris, e lo scrivo nel libro, è che fu proprio durante l’occupazione, sotto il maresciallo Pétain, che in Francia sono state vietate le erboristerie. Prima si vendevano piante come si fa oggi, ed era normale curarsi con le piante. Fu Pétain a vietarlo e a sostituire completamente le erboristerie con le farmacie, soppiantando tutta una cultura con l’industria farmaceutica. Così abbiamo perso un sapere. Lo stiamo recuperando, stiamo man mano ritrovando ora quella conoscenza e quel rapporto con le piante e la natura che avevamo perso, ma non è facile. Mi ha colpito che sia stato proprio Pétain ad aver attuato quella cesura: mostra come ci sia un aspetto fortemente politico in questo.
Racconta molto bene anche la sensazione della corsa verso la catastrofe. Ci sono mille momenti in cui potrebbero partire, e ogni volta c’è qualcosa, una speranza o un’incombenza, che lo impedisce.
È un aspetto che mi ha perseguitato per tutta la vita. Perché non sono partiti? E scrivendo, leggendo i documenti ho seguito tutti i passaggi: in quel momento non partono perché… c’è la maturità dei figli. E se si hanno dei figli si riesce a capire. Ci sono cose che sembrano infinitamente importanti, come che i figli facciano la maturità, e poi si vedrà. È questo peso del quotidiano che ci inghiotte e fa sì che non riusciamo a vedere che sta accadendo qualcosa di più urgente di tutto il resto. Ho lavorato molto sulla catastrofe, che è insieme lentissima – viene, dà dei segni, si annuncia molto lentamente – e poi un giorno in qualche ora si scatena ed è troppo tardi per tutto. È proprio questo che ho voluto descrivere e scrivere.
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