Parigi
Moda islamica: la guerra (laica e femminista) francese contro il velo
La “moda islamica” sta animando, in Francia, una guerra di posizioni che si combatte sulla lunghezza della gonna e sul velo.
Intanto partiamo dal termine “moda islamica”: fa riferimento in maniera approssimativa a quella che gli inglesi chiamano “modest fashion” e che in Francia viene tradotto come “mode pudique”, “moda pudica”.
Le grandi marche – tra cui Dolce&Gabbana, Uniqlo, H&M o Mango – hanno proposto, o stanno proponendo, collezioni che vengono definite “islamiche” dove sono presenti il velo e abiti più “coprenti” rispetto agli standard che, per semplicità e semplificazione, definiamo “occidentali”.
La questione della “modest fashion” è realtà più generale e ampia: va oltre l’Islam e arriva prima, come quasi sempre accade, delle mediatizzazione che ha seguito la scelta di questi grandi brand.
«Questa tendenza è apparsa nel 2007 presso i cristiani evangelici negli Usa, poi tra gli ebrei. Dopo il movimento è stato ripreso da start-up che si rivolgono ai musulmani. E poi sono arrivate le grandi marche», spiega a Libération Frédéric Godart, sociologo e studioso dell’Industria e della moda.
Si tratta di indumenti che coprono le spalle o il décolleté, che prevedono gonne lunghe, spesso sotto il ginocchio. E che sono pensati per le musulmane, ma anche per le cristiane evangeliche o le ebree ortodosse. E anche per chi ama gonne lunghe o abiti ampi e coprenti. La marca Modest, che ha atelier a Pargi e New York, è un esempio di questo tipo di tendenza e la proprietaria/stilista è di religione ebraica.
Perché questa scelta? Perché il loro business è vendere abiti e questo è un mercato in espansione. Secondo Reuters (dati del rapporto Global Islamic Economy) infatti, nel 2013 il giro di affari generato dal mercato cosiddetto “islamico” è stato di 266 miliardi di dollari; da qui al 2019 si parla di 484 miliardi.
In Francia, il paese della laicità, e dove il velo integrale è vietato negli spazi pubblici, la cosiddetta “moda islamica” ha creato un cortocircuito mediatico-politico che investe il femminismo, la sinistra e, ancora una volta, il modello di convivenza francese.
Tutto è partito dal ministro della Famiglia, dell’Infanzia e dei Diritti della Donna, Laurence Rossignol. Mercoledì 30 marzo, durante una doppia trasmissione a RMC e BFM TV, le è stato chiesto di commentare la questione della “moda islamica”: dopo averla definita una scelta «irresponsabile» da parte delle aziende è stata incalzata dal conduttore sulla questione del velo islamico.
La risposta di Rossignol, al centro delle polemiche è la seguente (traduzione dal video):
«Ci sono delle donne che scelgono (di portare il velo, ndr), c’erano anche dei NEGRI afric… dei NEGRI americani che erano favorevoli alla schiavitù. (…) Credo che queste donne siano, in maggioranza, delle militanti dell’Islam politico. Io mi rivlogo a loro, le affronto in quanto tali, come militanti, e quindi sul piano delle idee e denuncio il progetto di società del quale si fanno portatrici. Credo che esistano delle donne che portano il foulard per fede e altre che lo vogliono imporre a tutti perché ne fanno una regola pubblica»
Il dibattito si è diviso tra chi accusa il ministro per aver usato la parola “negro” e chi invece si è concentrato sulla quantità di stereotipi sull’Islam che la ministra è riuscita a produrre in 4 minuti.
Sotto l’hastag #RossignolDemission potete seguirne le prese di posizione. Contattata da Buzzfeed Rossignol ha rivendicato l’uso del termine “negro” adducendo la citazione colta “De l’esclavage des nègres” di Montesquieu e precisando che lo usa solo se parla del testo in questione.
Se la scelta del termine e del paragone sono fuori da ogni dubbio discutibili, a me sembra in realtà altrettanto grave, ma più significativa, l’affermazione secondo la quale le donne che portano il velo sono delle «militanti dell’Islam politico».
In Francia vige il principio della laicità che chiede, in nome della neutralità dello spazio pubblico, di non esporre e ostentare simboli religiosi. Nel 2010 si è aggiunta la legge che vieta di coprirsi il volto nello spazio pubblico: in cinque anni sono state fatte 1500 multe, tutte a donne musulmane e nessuna a presunti passeggiatori col passamontagna. Pochine, su una popolazione di più di 60milioni di persone.
E soprattutto la legge è stata vissuta, così come molti altri provvedimenti fatti in nome della lacità, come anti-Islam. Penso per esempio alla battaglie per l’abolizione dei menù differenziati nelle scuole (che vuol dire senza carne di maiale). Sempre in nome della laicità, a tavola in questo caso.
Il problema è antico, almeno quanto la legge sulla laicità (1905) perché è arrivata in un paese dove le grandi religioni (cristiana cattolica, protestante ed ebraica) erano presenti da secoli, con istituzioni ben impiantate, gruppi attivi, storia e tradizione sul territorio, mentre dall’altra parte l’Islam era ancora minoritario e non “integrato” nel tessuto del paese.
Se, infatti, fino a 5 anni fa i musulmani pregavano per strada in Francia non lo facevano per la qualità del cemento, ma perché non avevano luoghi di culto. E i poteri pubblici, quindi lo Stato francese, la République del “siamo tutti uguali di fronte alla legge”, non poteva intervenire e dare spazi, in nome della legge che garantisce la laicità (spesso con dolore, perché il problema è chiaro a molti nelle istituzioni). Ma allo stesso tempo vietava il velo integrale, fenomeno minoritario, o faceva dibattiti sull’identità nazionale che finivano per diventare anti-islam.
Il corto circuito è per me evidente: una legge nata per garantire uguaglianza di fatto non la permette per una diversa distribuzione delle opportunità dovuta a motivi storici e sociologici.
Il principio di laicità è corretto, limpido, logico e giusto, anche. Ma solo sulla carta, in un paese che non esiste.
Il ragionamento non spiega tutto il problema (e non è questa la sede per farlo) ma permette di intuire come un cittadino francese di religione islamica possa vivere questo trattamento. Specie se questo cittadino è quello che vive nei quartieri cosiddetti “difficili” dove il tasso di disoccupazione arriva quasi al doppio rispetto alla media nazionale, se è lo stesso che ha più difficoltà a trovare un impiego stabile, se non accede all’istruzione superiore. In contesti dove spesso la scelta religiosa assume un carattere identitario e di opposizione.
Moda islamica e femminismo
Su questa stratificazione di confusioni e frustrazioni si incastra, malino peraltro, il dibattito sul femminismo, sul ruolo della sinistra e sui diritti universali.
La filosofa francese Elisa Badinter ha ripreso, in un’intervista apparsa su Le Monde la questione della “moda islamica” e ha aperto un dibattito all’interno della sinistra francese chiedendo il boicottaggio delle marche di abbigliamento che si adattano all’Islam.
«La sinistra è divisa in due per ragioni ideologiche rispettabili e per motivi politici che lo sono meno. La mia generazione è cresciuta con i principi del relativismo culturale di Claude Lévi-Strauss, che ci ha insegnato a diffidare dell’etnocentrismo e a pensare che non esiste una cultura superiore alle altre.
Negli anni Ottanta il differenzialismo filosofico, portato dalle femministe americane, ha rafforzato questa visione del mondo. Gli universalisti, Simone de Beauvoir in testa, pensavano che le somiglianze tra uomo e donna primeggiassero sulle differenze mentre i differenzialisti insistevano sulle differenze. La collusione del relativismo culturale e del differenzialismo è stata drammatica e ha contribuito a mettere in causa l’universalità dei diritti dell’uomo».
Se per un periodo, dice Badinter, abbiamo pensato che ci fossero dei valori universali e che le libertà individuali si applicassero a tutti oggi «una parte della sinistra – che oramai viene definita “islamo-gauchiste”, ndr – pensa che tutte le culture e che tutte le tradizioni siano uguali».
E questo avviene anche per paura di essere accusati di “islamofobia” secondo la Badinter:
«Essere accusati di islamofobia è un obbrobrio, un’arma che gli islamo-gauciste hanno offerto agli estremisti perché viene usata contro chi dice “Vogliamo che le leggi della Repubblica vengano applicate a tutti e a tutte”».
Se il ministro Rossignol ha usato «una parola infelice parlando di “negri” (…) ha perfettamente ragione sul fondo. Penso che le donne debbano partecipare al boicottaggio di queste marche», conclude la Badinter. L’intervista è stata molto apprezzata da Valls, il Primo Ministro francese.
Le risposte alla Badinter sono state tante, ne cito a titolo di esempio due.
Quella della senatrice e storica Esther Benbassa, che sulle colonne di Libération (e ci torna su L’Express) sostiene che il «velo non è più alienante di una minigonna» perché il diritto di decidere del proprio corpo si applica a tutte le donne, a prescindere dalla loro religione.
E quella di Olivier Roy, considerato uno dei maggiori specialisti del mondo musulmano, autore di numerosi testi al riguardo ed consulente del Ministero degli Esteri francese. Su Atlantico:
«Denunciare l’alienazione di queste donne non ha senso, hanno fatto una scelta. Se si segue questa logica bisogna considerare che ogni adattamento a una pratica religiosa è un’alienazione e così lo sarebbe anche per le suore, i preti e i ministri di culto. Questa posizione corrisponde alla concezione della Rivoluzione francese che impediva monasteri e ordini religiosi. Oggi la libertà religiosa è inscritta nella Costituzione e non ci sono ragioni per vietare a una donna di portare il velo».
Badinter non è stata esente da critiche. La filosofa è infatti la principale azionista di Publicis, società fondata dal padre, il pubblicitario Marcel Bleustein-Blanchet e per la quale lavorano anche i due figli, Simon e Benjamin Badinter, avuti dell’ex Ministro della Giustizia Robert Badinter.
Publicis è l’agenzia che si occupa, in Francia, della comunicazione dell’Arabia Saudita, paese dove i diritti delle donne non sono una priorità. La filosofa, nonostante le sollecitazioni della stampa, non ha risposto alle richieste di chiarimento su questa contraddizione. Ma in fondo perché dovrebbe?
Si tratta, anche in questo caso, di business.
(La foto arriva dalla rivista Contretemps.eu)
Devi fare login per commentare
Accedi