Parigi
Mettere in pratica la riservatezza della nostra religione interiore
Il Papa ha parlato di guerra mondiale:
quelle del Golfo, Afghanistan e Iraq sono state dunque solo l’incipit di quello che potrebbe configurarsi come un nuovo conflitto mondiale e che contrappone il mondo globalizzato economicamente e il fondamentalismo religioso, metastasi di un’ insofferenza verso un asfissiante materialismo che ha minacciato tradizioni locali e culturali.
Non è un caso che il fanatismo religioso abbia attecchito e fatto proseliti tra le fasce più povere degli strati sociali persino nella nostra cultura in cui si è stati educati a pregare un Dio misericordioso, geograficamente lontana e il cui unico punto di contatto è un sentimento di defraudazione. Sentimento, quest’ultimo, che ha accresciuto la volontà di adesione ad uno stile di vita più facile e regolato, dove la questione non è più scegliere il capo d’abbigliamento da indossare o l’ultimo telefonino da sfoggiare, ma la ricerca di un’opportunità di scelta che non abbia un destino già segnato.
Più che di guerra asimmetrica bisognerebbe parlare di esercizio asimmetrico del potere che espone l’ onnipotenza del mondo occidentale alla sfida che i terroristi giocano non solo su un piano reale, ma anche su un piano simbolico.
Le democrazie occidentali basate su un sistema che esclude la morte si trovano disarmate dinanzi a un nuovo concetto di morte che non rientra nello schema della guerra in quanto non riferibile ad essa nel computo finale delle vittime. La morte che, arma di ricatto e di riscatto, è dispensatrice di giustizia e giusta ricompensa di una vita spesa per un eroico martirio, la morte come orgoglio, vanto, garanzia di memoria e vita eterna, morte perciò che è arma invincibile
Ci sentiamo tutti in pericolo, minacciati dal non identificabile e incombente che rischia di paralizzarci in un luogo che è tutti luoghi possibili, che porti il nome di Bataclan , Le Petit Cambodge o Beirut e in un’ora che è tutte le ore possibili anche quelle lontane dagli affanni e dalle preoccupazioni quotidiane
Più di palazzi, scuole, chiese, luoghi di relax e divertimento, più della carne umana stessa, il terrorismo distrugge la fiducia nella possibilità di avere un controllo sulle proprie vite, la fiducia nella prevedibilità del domani, essenziale per attribuire spessore e investimento alle azioni che scandiscono la nostra quotidianità. L’undici settembre, in tal senso, non ha provocato solo il crollo delle torri gemelle, ma ci ha reso consapevoli che qualsiasi edificio in qualsiasi luogo della terra può nuovamente crollare.
Il fatto che i terroristi utilizzino la maschera di una vita normale fatta di case e letti di periferia, studi intrapresi per svegliarsi un giorno come bombe a orologeria, rende ancora più inquietante la clandestinità perché la priva dell’aspetto spettacolare, perché fa cadere l’ombra del sospetto su qualsiasi essere umano, chiunque è un terrorista in potenza, un pericolo in incognito che si nasconde dietro ogni angolo della strada.
Smarrimento, confusione, un diffuso sentimento di essere inermi, impotenti, con le intelligence degli stati che non riescono a tutelarci. È questo ciò a cui la strategia del terrore mira e per quanto la paura detti di innalzare lo stato di allerta, di chiudere i confini, è evidente che il solo irrigidimento è mero placebo e non tutela nessuno se le politiche di integrazione continuano a risultare fallimentari.
Parlare di attacchi alla democrazia europea ha senso solo se si considera che gli scenari locali e globali sono strettamente intrecciati perciò, affrontare i problemi di un mondo globalizzato richiede una reale trasformazione della condizione umana. Una lezione che avremmo dovuto apprendere il dodici settembre all’indomani del crollo dal sogno americano.
L ‘ immagine dei tanti fiori sparsi ovunque per esprimere vicinanza alle vittime della ferocia umana e alle loro famiglie mi riporta alla mente le parole del protagonista di“Monsieur Ibrahim e i fiori Del Corano”con cui Ibrahim, l’arabo che arabo non è perché viene dalla Mezzaluna d’Oro, spiega a Momo, ragazzo ebreo che come lui vive in un popolare quartiere parigino, che felicità significa: “Mettere in pratica la riservatezza della nostra religione interiore”. Il viaggio dei due protagonisti verso Oriente ha come unica guida i fiori esclusivi di un esclusivo Corano dentro il cuore. Un Corano laico che ciascuno possiede dentro di sé e che al di là di ogni luogo comune che spinge a guardare il prossimo con diffidenza, è frutto di ricerca e scoperta di un terreno comune di conoscenza di sé e dell’altro, di rispetto, di determinazione incondizionata che non riduce in polvere, ma eleva ogni atto di umanità e che trova realizzazione nella libertà da soffocanti nodi di ideologie e ortodossie.
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